sabato 19 luglio 2014

Angela


Racconto di Marina Zinzani

Ti tengo la mano. Sono qui, piccola mia, chissà se puoi sentirmi. Non lasciarmi, non lasciarci. Devi farcela, la mamma è vicino a te. Ho perso la cognizione del tempo. Da quando sono qui? E’ sera, mi hanno svegliata alle quattro del mattino e da allora sono entrata in questo film dell’orrore.
Tuo padre non ha perso la testa, ha parlato con i medici, dice che ci sono speranze, che tante persone si risvegliano dal coma nelle tue condizioni. Lui spera, è forte e razionale. Mi hanno fatta entrare in questa stanza, mettere queste cose verdi ai piedi, e poi il camice e la cuffia. Deve essere tutto asettico, non devo metterti in pericolo. Ti guardo: il tuo volto è pallido, mi fa quasi paura. C’è un silenzio irreale.
Non mangio niente da ieri sera. Tuo padre mi esorta ad andare a casa qualche ora, a stendermi, resterà lui qui. Ti lascio con lui, ci vediamo fra poche ore. Vado per farlo contento, ma non ho né sonno né fame. Esco, la sera è già calata. Davanti all’ospedale passano delle ragazzine. Sono vestite come te, potrebbero essere tue amiche, jeans, ballerine ai piedi, magliette attillate, foulard colorati. Mi stupisco di loro. Si parlano e ridono, sono vive nei loro corpi integri e armoniosi. Tu sei lì, in una stanza di rianimazione, dopo che ti hanno aperto la testa. Non ho voglia di tornare a casa, passo davanti ad una chiesa e mi fermo. Mi siedo, davanti a me c’è una croce con un uomo, è quello che tanti cercano nei momenti di disperazione. Mi accascio sulla panchina, mi prendo la faccia nelle mani. Dio, aiutami.
La sera è fresca. E’ domenica, i ragazzi vanno nei pub, nei locali alla moda, si ritrovano e parlano fra di loro, in genere sono coetanei.
Suona il telefono, è mia madre. Non ho voglia di parlarle, sa già tutto, tuo padre l’ha informata.
“E allora?” mi chiede.
“Niente, ancora niente.”
“E quello là come sta?”
“Ha solo una gamba rotta, non si è fatto altro.”
“E’ vero quello che ha detto Davide? Aveva bevuto, sembra che fosse sotto l’effetto della cocaina… Ma cosa c’entra la nostra Angela con un uomo così? Di quarant’anni, poi!”
“Non lo so, mamma, non lo so.”
“Dovresti saperlo, sei sua madre… Tua figlia ha solo diciotto anni e non sai neanche con chi esce… “
Chiudo la telefonata. Mi aspettavi al varco, mamma, non ti risparmi neanche questa volta. Dovevi ricordarmi anche adesso come la pensi, che i tuoi tempi erano migliori, che una donna stava al suo posto, che una ragazzina di diciotto anni non si schiantava alle tre di notte nella macchina guidata da uno che poteva essere suo padre, che aveva bevuto e che si era drogato. Che ne sai tu, mamma, dei giovani di oggi che fanno fatica a parlarti, che vanno a ballare a mezzanotte perché così fanno tutti? Devi solo aspettare a casa e pregare perché nessuno ti telefoni nel cuore della notte.
Il tuo non capire mai le cose viene fuori anche adesso, mamma, perfino in questo momento. Vuoi sapere. Pensi che io non abbia seguito le mie figlie, anzi, che non abbia seguito Angela, perché Lucia non ha mai dato pensieri, vero mamma. Quella l’hai seguita bene tu.


Dormo poche ore, mi alzo e mi lavo alla meglio. Ingurgito un po’ di latte, ma ho lo stomaco chiuso, le ossa a pezzi. Torno all’ospedale per dare il cambio a tuo padre. E’ lunedì, le strade sono piene di auto, tanti entrano nel metro, salgono sui tram. Corrono, sanno dove andare, perché è una mattinata di lavoro come tante. Anch’io sarei dovuta andare a lavorare, ma invece entro qui, in questo ospedale schifoso, in questa stanza dopo avere indossato questo camice e tutto il resto. Tuo padre va a casa. Lucia è andata dalla nonna, non voglio farla venire qui.
Mi aspetta un’altra giornata con te, piccola mia. Come un tempo. Eravamo da sole, io e te, in casa. Papà andava a lavorare, rientrava la sera, e tu gli correvi incontro. Aveva sempre qualcosa per la sua principessa, così ti chiamava e ti portava spesso un giocattolo o una bambola, tu lo abbracciavi forte e dicevi: “E’ bellissima, papà”.
Facevo la pasta e tu, accanto a me, mi imitavi, ne volevi una parte a cui davi tante forme strane. Quando cucinavo la mia, mettevo nell’acqua anche la tua e la sera le mangiavamo entrambi. Poi tuo padre diceva che la tua era più buona della mia. Ti sporcavi le manine di farina, la faccina diventava mezza bianca e salivi con le ginocchia sulla sedia per potere lavorare la pasta sul tavolo. Eri piccola, non ci arrivavi ancora bene, da seduta. Eri bellissima.
Anche quando cucivo, ti davo un pezzetto di stoffa e tu passavi il pomeriggio a inventarti vestiti per le bambole. Ci parlavi, con le bambole, facevi i vestiti da sera e da giorno, guardavi le mie riviste e volevi imitare quei vestiti. Eri una bambina buona, che stava ore senza farsi sentire, persa nelle sue cose e nel suo mondo. Parlavi da sola e io ascoltavo e scuotevo la testa divertita.
Dopo cinque anni nacque Lucia. Ti avevo spiegato che dentro la mia pancia c’era una sorellina con cui avresti giocato, che avresti dovuto aiutarmi nell’accudirla. Volevo farti sentire importante, sapevo che il primo figlio può essere un po’ geloso quando arriva un fratellino e non volevo fare questo errore.
All’inizio, quando nacque Lucia, eravamo complici.
“Hai visto, Angela – ti dicevo – che begli occhi ha Lucia, però i tuoi sono più belli. Anche il naso… è più carino il tuo” ti dicevo. Tu mi sorridevi, guardando quella cosa strana che ti appariva la tua sorellina. Non so cosa accadde poi, forse niente. Non lavoravo allora e portavo te e tua sorella al parco, di pomeriggio. Tu giocavi con le altre bambine, io ti guardavo, tenendo Lucia in braccio.
Cominciai a lavorare. Attraverso alcune conoscenze, andai da un commercialista, e visto che ero portata, diventai presto importante in quello studio. Mi affidarono un buon incarico, il problema era che le ore da lavorare, dapprima poche come era stato concordato, con il tempo diventarono sempre di più, e io non riuscii a dire di no e a cambiare lavoro.
Tu andavi all’asilo, e per il resto una mano la dava mia madre. Un giorno la nonna regalò a Lucia un piccolo pianoforte e le insegnò qualche nota. Anche tu ti avvicinasti per vedere, ma chissà perché tua nonna era più concentrata su tua sorella, era a lei che voleva insegnare. Mia madre aveva studiato pianoforte per molti anni, si era diplomata al conservatorio e aveva vissuto con rammarico il fatto di non avere intrapreso una vera carriera, sposandosi. Solo qualche concerto saltuario qua e là.
Non era riuscita a trasmettermi l’amore per la musica. Più che altro, stare ore davanti al pianoforte a fare gli esercizi non faceva per me. Con Lucia aveva trovato la sua erede. Credette di riconoscerne talento e grazia. Veniva il pomeriggio e le dava lezioni e anche se era piccola, avevo capito che effettivamente era portata.


Non capii cosa c’era dietro certi tuoi comportamenti che cominciarono da allora: tu che passavi quando Lucia suonava e battevi qualche tasto sul pianoforte per rovinarle un brano; la nonna ti rimproverava e rimproverava me per non tenerti di là in cucina, a fare i compiti. Aveva progetti su Lucia, parlava di scuole e di maestri che conosceva, facevo fatica a seguirla nei suoi entusiasmi. Diventasti dispettosa. A volte nascondevi le cose di tua sorella e quando lei si disperava per trovarle, tu facevi finta di niente. Le trovavo in mezzo alle tue cose e me la prendevo con te, a volte urlavo non capendo i tuoi dispetti.
Il lavoro nel frattempo mi prendeva sempre di più e ne facevo una parte anche a casa. Ero diventata il braccio destro del commercialista e lo stipendio era anche aumentato. Facevo però sempre più fatica a seguire tutto. Anche tuo padre si fermava ad ascoltare tua sorella al piano e la guardava convinto. Mia madre aveva trovato nel genero un alleato nei suoi progetti.
L’infermiera arriva, controlla delle macchine, io la guardo, vorrei che mi dicesse qualcosa, ma è impassibile, asettica come questa stanza. Guardo la tua testa fasciata, ti ricresceranno i capelli, piccola.
A dodici anni ti facesti un pezzo di capelli biondi, una ciocca bionda sui capelli neri. Litigammo tre giorni. Avevi fatto tutto dalla tua amica Laura, sua madre aveva lasciato fare, così mi arrabbiai anche con lei. Stavi bene a casa di quest’amica, volevi andare sempre da lei a fare i compiti, non la invitavi quasi mai a casa. Qualche volta l’avevi fatto, forse non era un caso che avevi smesso di invitarla dal giorno in cui lei aveva fatto i complimenti a Lucia che suonava. Tua sorella si era messa a parlare con lei di un pezzo, mi ricordo di una tua battuta insofferente: “Bene, ora possiamo andare a studiare”.
Non era colpa di tua sorella se aveva talento, era una cosa naturale, forse l’aveva ereditato dalla nonna.
Cosa c’entrava lei, poi? D’accordo, era anche brava a scuola, aveva il massimo dei voti pur studiando pianoforte tutti i giorni. E’ che tutto le veniva facile, in ogni cosa.
A quindici anni parlasti di passare qualche giorno fuori, in vacanza con Laura. Come al solito sua madre era accondiscendente, aveva una vita sentimentale che definivo confusa, un ex marito, un figlio avuto da un altro uomo, relazioni di cui avevo perso il conto. Pensavo che frequentare quella casa ti avesse influenzato negativamente. Di fatto non volli e tu mi tenesti il muso per una settimana.
Arrivavo a casa stanca la sera, allora lavoravo tutto il giorno fino a tardi e tu stavi nella tua stanza a fare i compiti, a guardare Internet e a sentire la musica alta. Disturbavi Lucia e credo che lo facessi apposta, o perlomeno non te ne importava. A tavola, la sera, tuo padre e io parlavamo della giornata di lavoro, delle bollette che erano arrivate, della salute della nonna. C’entra qualcosa tutto questo? Quelle comunicazioni fredde, di fronte a una tivù che mostra orrore e paure che incombono, quasi da farci sentire in colpa di mangiare insieme attorno a un tavolo la sera: c’entra qualcosa questo?
Tu parlavi pochissimo con noi, solo rare comunicazioni sui soldi, le ricariche del cellulare, vestiti che dovevi comprare. Non andavi bene a scuola, tuo padre ti aveva fatto una bella ramanzina e tu avevi alzato le spalle ed eri uscita di casa. Sapevo che l’adolescenza era un periodo difficile, ci voleva tempo. Anche pazienza. Ma le cose non migliorarono. Ti trovai la ricetta di un anticoncezionale in borsa, frugai fra le tue cose dopo una lite e la sensazione di non capirti più. Non sapevo se affrontare il problema, avevi solo sedici anni, e già eri andata da un ginecologo da sola, avevi fatto tutto tu, come se io non esistessi.


La mia natura apparentemente calma mi tenne a bada solo tre ore, poi scoppiai. Ti parlai della delusione che avevo provato, non ti avevo visto mai con un ragazzo fisso, solo amici e amiche che ti venivano a prendere sotto casa. Era a uno di questi ragazzi che ti eri concessa, e con quanta facilità?
Non ricordo bene cosa dicesti, mi aggredisti alzando la voce, dandomi dell’antiquata e di quella fuori dal tempo. Provai a dirti che certe cose sono belle quando ci sono i sentimenti, che una ragazza non si può buttare nelle braccia del primo venuto. Perlomeno che mi potevi fare conoscere il tuo ragazzo.
Tu mi rispondesti:“Quale?”. Io me ne andai dalla tua camera, non avevo più parole. Eri stata male allora a dirmi questo, era davvero questo che volevi dirmi? Aiutami a capire adesso, perchè forse non ci sarà più tempo, mi hanno detto di considerare anche questa ipotesi. Aiutami, Angela. Aiutami a capire dove ho sbagliato. Quello che non ti ho dato.

I dottori sono attorno a te, si parlano, uno scuote la testa. Quello a cui ha parlato tuo padre ha detto che il tuo corpo non reagisce come dovrebbe. Gli ha spiegato che spesso gli stimoli, come la voce di qualcuno o la sua musica preferita, aiutano a risvegliarsi, ci sono dei casi così.

E’ una buona idea, tuo padre mi ha detto che dobbiamo fare subito qualcosa, si può portare qui un CD con la tua musica, avrai un cantante preferito, un gruppo, che so. Io l’ho guardato. Poi ho guardato per terra. Mi vergogno. Non so niente. Non so niente della musica che ti piace, dovrei guardare nella tua stanza ma non mi hai mai detto niente. Dovrei dirlo al medico: “Non so che musica ama mia figlia”; lui mi guarderebbe e direbbe: “Capisco”.

Capisco. Cosa dovrebbe capire. Che ho lavorato, che mi trovavo mucchi di panni da stirare e da fare la spesa il sabato e che la domenica dovevo fare da mangiare per la settimana, perché poi il lunedì si correva, correvo, accidenti. Che ne so qual è la musica che ama mia figlia? Faceva appena fatica a parlarmi.
Poi, arrivò lui. Avevi solo diciassette anni. Capivo che era successo qualcosa, ti vedevo diversa, più assente del solito. Non ti facevi venire più a prendere da nessuno dei tuoi amici, uscivi e basta. Una volta ti seguii dal balcone. Girasti l’angolo di strada e salisti su una macchina. Io e tuo padre non avremmo mai potuto permetterci una macchina così. Ne seppi di più, le voci giravano. Aveva quarant’anni, una moglie da cui viveva separato e un figlio, un lavoro poco chiaro, sembrava fosse socio in una discoteca. E un mare di soldi. Cambiava macchina ogni sei mesi. Venimmo allo scontro totale con te, io e tuo padre. Eri minorenne e i sussurri su questo tipo non erano dei migliori. Cosa ci trovavi in uno che poteva essere tuo padre?


La nonna veniva, avvertiva l’aria di tensione in casa e si rinchiudeva nello studio con tua sorella, preparavano un concorso di pianoforte ed era convinta che potesse farcela. Ti vestivi male, eri trasandata, ti facesti anche un tatuaggio sul polso. Era la moda, io e tuo padre non capivamo niente, ci dicevi. Quando arrivasti con il pearcing sulla lingua, poi, le urla si sentirono fino al piano di sopra. Da un anno ti vedevo uscire con lui, ti veniva a prendere sotto casa e ora non avevi più neanche paura delle nostre sfuriate.
Mi fanno uscire. Vedo i dottori che parlano, scuotono la testa. Non ce la faccio a stare qui, mi svesto di questa roba verde e mi incammino verso il bar. Mi tremano le gambe. Il corridoio è interminabile. Si sente il rumore delle tazze, del caffè pungente, sono tutti vitali. Medici che parlano, la barista che raccoglie le ordinazioni. Ordino un cappuccino e me lo porto in una mensola davanti al muro. Mi passo il dorso della mano sugli occhi bagnati, non c’è nessuno che possa aiutarmi. Angela, ti prego.
Quando torno nella stanza, l’infermiera a cui chiedo qualcosa non mi dice niente, è fredda, professionale. Il lavoro. Lo schifoso lavoro. Se ti avessi seguito di più piuttosto che perdermi la sera in dichiarazioni fiscali che mi portavo a casa, che mi occupavano anche il sabato mattina… Se potessi tornare indietro e capire cosa ci fosse che non andava. Ora saresti con un’amica, un ragazzo normale, non saresti mai salita su quella maledetta macchina.
Ma può essere accaduto tutto per la gelosia verso Lucia, perché pensavi che preferissimo lei? D’accordo, tua sorella non ha mai dato problemi, d’accordo che la nonna stravedeva per lei e te neanche ti guardava. Giusto una cosa formale, lo so com’è mia madre. Basta questo per spiegare il tuo cambiamento? Dimmelo, ti prego. Ti tengo la mano. Questo tatuaggio. Abbiamo perso dei giorni che potevano essere di serenità dietro una sciocchezza del genere.
Walter. Era l’amico di papà. Veniva spesso a casa nostra, andava in garage dove papà aveva i suoi attrezzi e stavano lì per ore, dietro le loro cose. A volte si fermava a mangiare da noi. Era un bell’uomo allora, alto, magro, con la battuta sempre pronta. Scherzava su ogni cosa. Poi si è visto meno, ha divorziato, la moglie lo ha lasciato e non si è capito bene perché. Ce l’ho davanti agli occhi, quella scena. Io arrivo a casa e non c’è nessuno. Dopo un po’ sento il rumore di una macchina, siete voi due, scendete. Tu sei a testa bassa, e vai dritto in casa senza guardarmi… lui parla… ti ha dato un passaggio fino a casa… lui continua a parlare… Chiudo gli occhi. Rivedo il tuo volto senza espressione che guarda a terra. Non c’eri più tu, in quel volto. Avevi dodici anni.  
La storia della ciocca di capelli bionda nacque dopo, me lo ricordo. Dimagristi, qualche volta ti sentivo in bagno a vomitare. Eri sempre da Laura o chiusa nella tua stanza. Avevi mal di stomaco per un nonnulla.


Walter… Era sempre gentile, sempre pronto ad aiutarci, aveva prestato anche dei soldi a tuo padre una volta. Io non dissi niente quel giorno. Cosa dovevo dire... Cosa era successo… Non mi ero chiesta niente. Cominciasti a essere critica con noi. Eri polemica su cose che diceva tuo padre a tavola, non ti piaceva il cibo che cucinavo. Eri insofferente verso tua sorella, che subiva i tuoi malumori senza replicare. Mangiavi a fatica.
Perché penso a queste cose? Da quella volta della macchina, quando Walter si fermava a mangiare da noi, tu dicevi che dovevi studiare o che dovevi andare da Laura, forse non hai mai mangiato a tavola con noi quando c’era lui… Forse una volta. Avevi mal di stomaco, dicesti, e ti andasti a stendere… E io dov’ero? Cosa pensavo io? Che razza di madre sono stata io che non mi sono accorta… Dio mio fa che non sia vero… Non è vero, non è vero niente… Quella volta che tuo padre ti rimproverò perché eri tornata tardi, dava la colpa ai tuoi amici e tu gli urlasti: “Begli amici che hai tu, invece!” Perché non ti ho chiesto cosa significava quella frase, cosa volevi dire?
Mi prende un gran sonno, all’improvviso. Mi appoggio sul tuo letto e forse mi addormento. Faccio un sogno. Siamo io e te in un prato. Che strano, hai il corpo di una ragazzina, avrai dodici, tredici anni. Mi vieni incontro e hai fra le mani una margherita. Io sono seduta su questo prato e mi sento strana. C’è un bel cielo azzurro, il prato è verde, di un verde diverso, più forte. Anche la margherita che hai è più grande di una margherita normale, ha la dimensione di un girasole eppure è solo una margherita.
Vorrei parlare, ma non esce la voce. Faccio uno sforzo, ma non ce la faccio. Tu sembri capire quello che voglio dire, mi prendi la mano. Capisci che ho capito. Allora riesce a uscire dalle mie labbra questa parola terribile, assurda, colpevole: scusa.
Non so quanto tempo mi sono assopita. Mezz’ora, pochi minuti? Due medici ti stanno attorno, non so cosa succede. Mi invitano a uscire. Ci siamo. Mi appoggio al muro, comincio a pregare. Dio, aiutami. Poi, l’infermiera viene verso di me.
“Venga” dice prendendomi la mano. Sorride.


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