giovedì 6 novembre 2014

Natascia

di Marina Zinzani
Tratto da I racconti della pioggia

(ap) Il tema della pioggia è il sottile filo conduttore di storie diverse, in cui la speranza si mescola alla disillusione e allo smarrimento.

La vita porta via i sogni. La vita cancella, passo dopo passo, i ricami della mente, i voli di un momento.
La vita può diventare una sequenza stancante di scale da pulire. Quelle scale erano diventate i giorni di Natascia, e forse doveva essere anche felice di quelle scale da pulire, perché qualcosa lei aveva trovato, venuta in Italia. Vedeva gli inquilini dei palazzi che passavano sulle scale, prendevano gli ascensori, a volte dicevano anche buongiorno, altre volte nemmeno si accorgevano di lei. Forse nessuno avrebbe potuto descrivere il suo volto, perché a nessuno veramente interessava chi fosse lei. Una che puliva le scale, non di più. La gente passava, gente benestante, il palazzo era signorile, le signore uscivano con tacchi alti, scie di profumo, vestiti non certo presi nelle bancarelle del mercato. 
Le signore erano  belle, ben pettinate e truccate. Natascia  ascoltò per caso, quella mattina di tiepido sole primaverile, le urla che provenivano da un appartamento. Erano di un uomo e di una donna. E alla fine sentì sbattere la porta, un signore se n’era andato di fretta, aveva preso le scale senza neanche accorgersi di lei, che continuava a pulire. Cose che capitavano, bisticci probabilmente fra marito e moglie. Solo che c’era dell’altro, quella mattina, che le fece pensare alcune cose, occuparsi degli affari degli altri: dopo una mezz’ora entrò nell’appartamento un altro uomo, uno giovane e lei sentì chiaramente la voce della donna. Forse era un fratello, un amico, chissà.  E lei continuò a pulire tutte le scale. Il secchio con il detersivo, lo spazzolone. Quella era la sua vita, in quel palazzo e in altri palazzi dove aveva trovato un po’ di lavoro.
Dato che l’appartamento da cui erano uscite le urla e in cui era entrato quel giovane era al primo piano, Natascia ebbe modo di essere nell’atrio quando si aprì la porta. Ebbe modo di alzare lo sguardo e di vedere la sagoma di una donna che baciava quel giovane. Natascia sorrise. Devo farmi gli affari miei, pensò. Erano passati alcuni giorni. Le scale erano sempre le stesse, lei era sempre trasparente. L’uomo del litigio uscì dall’appartamento al primo piano, probabilmente era il marito, dato che l’aveva visto altre volte nel palazzo. Non seppe perché, forse il piede messo male, forse il pavimento bagnato, forse le scarpe che non erano le solite con la suola di gomma: di fatto lei scivolò giù per le scale. Quell’uomo era quasi sul portone e si girò. Dio mio, si è fatta male? No, non lo so.
Cosa doveva dire lei a uno sconosciuto? E che situazione imbarazzante… Venga, la porto di sopra, si stenda sul divano, vediamo se si è fatta qualcosa, non riesce proprio a muovere la gamba? Comunque io sono un medico, magari la porto al pronto soccorso. Sorreggendola, il signore gentile l’aveva condotta al suo appartamento e l’aveva fatta sedere sul divano. Le fa male? Lui faceva domande, lei cercava di rispondere ma le sue parole erano più che altro smorfie di dolore.  E lei sapeva che non poteva permettersi di stare male, di non lavorare: come avrebbe pagato l’affitto con la sua amica Vera, come avrebbe fatto se avesse dovuto ingessare la gamba? Certo la caviglia si stava gonfiando, aveva delle fitte, il dolore era insopportabile.
Doveva essere pallida, impaurita. Lui arrivò con un bicchiere d’acqua. E’ meglio andare al pronto soccorso, queste furono le parole di quell’uomo gentile. Lei non era mai entrata in nessuno di quegli appartamenti, a volte aveva immaginato che fossero lussuosi, pieni di mobili laccati, e con grandi tappeti. Anche con quadri preziosi alle pareti. Era così la casa di quell’uomo, ancora meglio, forse come non avrebbe mai immaginato. Era grande, la sala era come il suo piccolo appartamento, un tappeto dai colori caldi, arancione, blu, verde, riempiva l’ambiente di calore e di armonia. Il divano era bianco, con dei cuscini arancioni scuri. Due grandi piante erano ai bordi del divano. Era bello tutto, bella la casa, belli i mobili, ogni cosa era al suo posto, il gusto dei ricchi, le cose che i ricchi potevano permettersi. E quell’uomo era gentile, veramente gentile. 
Le offriva un bicchiere d’acqua, mentre lei guardava il ritratto su una mensola che ritraeva una donna bellissima dai lunghi capelli biondi e dagli occhi azzurri, sorridente con i denti perfetti e bianchissimi. Era lei, la donna che aveva intravisto salutare quel giovane, baciarlo fugacemente. Aveva l’amante, la signora. Che peccato per lui, in fondo era un bell’uomo, suo marito, un uomo gentile. Un medico, quindi. Lui risolse la questione chiamando un taxi, era la cosa migliore da fare disse, andare al pronto soccorso e vedere cosa le fosse successo. L’avrebbe accompagnata, non c’era altro da fare.  Lei, cercando di scusarsi per portargli via il suo tempo, pensando a soluzioni alternative, alla fine si ritrovò sul taxi accanto a lui.  Aveva delle mani curate quell’uomo. E degli occhi di un castano che tendeva al grigio, lei l’aveva notato, ma poi aveva abbassato gli occhi. Natascia non aveva neanche detto il suo nome, in fondo era solo la ragazza delle scale. Quando arrivarono al pronto soccorso, lui scese dal taxi e tornò con una sedia a rotelle. 
Venga, si sieda qui, non le ho ancora chiesto il suo nome. Natascia? Ah, venga Natascia, speriamo che facciano presto. Lui che va a parlare con un medico, dice che è un collega. Che strano cameratismo. Ma si conoscono? Lei che è lì, i dolori che aumentano, cosa posso fare ora, Vera è al lavoro, dovrei chiamarla. Dovremo aspettare, lui dice, ci vuole un po’ di pazienza. Intanto vuole che le porti qualcosa dal bar, un tè, un caffè, c’è anche un distributore automatico lì, non faccia complimenti. Magari un tè, grazie. Il tè riscalda. Il tè mi ha sempre riscaldato.  Anche da piccola. Quando papà e la mamma erano davanti alla televisione, e io facevo i compiti. Una bella tazza di tè con dei biscotti che prepara la signora Klara. E’ buono questo tè, dolce. Questo medico è dolce, si preoccupa per me. Non sa neanche chi sono, mi è passato vicino qualche volta, mi ha sfiorato e mai veramente visto. Ora è qui, con una tazza di tè per me. Anzi, dice che si prende qualcosa anche lui, l’attesa sarà lunga, c’è parecchia gente al pronto soccorso.  
Mi dispiace farle perdere del tempo, avrà molte cose da fare. Ma lui sorride. Ha qualcosa di caldo, che evoca una certa pace. Un uomo di mondo, tranquillo, che si alza e va a parlare con un medico, chiede quanto ci vorrà ancora, la signorina ha male. Si preoccupa per me. Qualcuno si preoccupa per me. Gli schiaffi, le urla, lui che mi tira per i capelli. Io che corro e lui mi rincorre. Il grande amore che diventa un incubo da cui scappare. Mi prenderà, lui è forte, è violento e io non lo sapevo. Mia madre me l’aveva detto di non fidarmi di lui. Andrej, maledetto ovunque tu sia. Il signore invece comincia a parlare con me, chiede, chiede da dove vengo, la Polonia, ah, la Polonia. Non c’è lavoro lì, e allora sono venuta in Italia. Le piace l’Italia? Ha visto altre città, oltre a Milano? Passa un’ora, e poi un’altra. Siamo ancora qui che parliamo, non abbiamo smesso un attimo. Sa tante cose, ha viaggiato. C’è stato anche in Polonia, ma non nella mia città. 
Mi incanta la sua voce, è bassa, calda. E’ calda anche la sua mano che mi sorregge quando è il mio turno e devo entrare. Quello che viene dopo, con lui che mi segue, i raggi, la fasciatura, mi fa sentire lontana. E’ il mio corpo che questi medici curano. Ma io sono lì, con lui, con questo medico che mi ha aiutato e che è stato gentile con me, in questo giorno che sembrava uguale agli altri. E quando lui mi accompagna a casa, ancora una volta in taxi, si preoccupa ancora, e lo devo fare salire in quella stanza che è tutta la mia vita, la mia vita di ora. Vuole un caffè? No, non si disturbi, si riposi, questo ha detto il medico, venti giorni e poi vedremo, la sua amica comunque torna questa sera? Questo è il mio cellulare comunque, non si faccia scrupoli. Natascia entrava nel salone. Era lì, con i vestiti appena un po’ migliori dei suoi soliti, aveva un paio di jeans e una maglietta nera. Attillata sì, e con i lunghi capelli castani che si era raccolta, un filo di ombretto azzurro che contornava gli occhi. 
Lei era lì, quando lui tornava a casa con la borsa di medico, doveva avere avuto una giornata stancante, chissà quanti pazienti aveva visitato, quante noie. Ma lui doveva sentire il profumo dalla cucina, un profumo di un pasto caldo che era pieno di amore per lui. E lui si sarebbe seduto, avrebbe chiesto cosa hai fatto da mangiare, e lei l’avrebbe accolto con un bacio, un abbraccio stretto, e un sorriso. Anche una carezza. E lui, guardandola, sorridendo, si sarebbe seduto e avrebbe cominciato a mangiare. Non diceva che era buono, il gulash che aveva preparato. Stava in silenzio e la guardava. Lei sorrideva. Gli è piaciuto, si vede dallo sguardo. E poi la domenica sarebbe stato bello fare un giro nel parco, quello dove c’è l’acqua e i giovani che si sdraiano e avrebbero passeggiato abbracciati. 
Lui l’avrebbe protetta, lui era buono. Erano buoni i suoi occhi, non poteva sbagliarsi su questo. Venti giorni furono lunghi, accompagnati dai sogni, da quello che sarebbe potuto accadere. La moglie aveva un amante, lui non si meritava una donna simile. Meritava di più, cento volte di più. Venti giorni trascorsi fra quelle stanze da sogno, in punta di piedi, loro due che ascoltano musica, loro due attratti e felici. Un sogno che sembrava vero e perché no, possibile.
Lo rivide, un mese dopo. Era una giornata di pioggia, di quelle in cui la gente entra nel palazzo con le scarpe fradice e lei doveva fare il doppio della fatica. Pulire, ancora pulire. Lo vide scendere dal suo appartamento con la donna della foto, la moglie.  La salutò. Come sta ora? Tutto bene? Per fortuna che non c’era niente di rotto.  Ma chi è, chiese la moglie. Ah, la ragazza delle scale, ti ricordi che te l’avevo detto.  Ma la moglie scosse la testa, come se quello che era accaduto quel giorno non fosse importante, come se una povera ragazza polacca che cade dalle scale non interessasse a nessuno. Solo a lui, forse, che mentre usciva dal portone la salutò con un lieve sorriso.

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