martedì 5 gennaio 2016

Tutto il bene del mondo

di Marina Zinzani
Tratto da I racconti dell’ombra

Parole e sorridere. Tante parole, corrette, scandite bene, presentate con un sorriso, un’inclinazione gentile, o seriosa, se occorreva. Modulare la voce in base alla notizia, apparire un essere animato, con delle emozioni, ma anche tanta professionalità. Perché quella serviva, prima di tutto: la professionalità in quel lavoro che la portava ogni giorno a casa della gente, volto che si incrociava mentre si preparava la cena, o si era già a tavola, e la famiglia si raccoglieva.
Angela era una giornalista del telegiornale: che cosa strana finire proprio lì, davanti a tutti, al mondo si potrebbe dire, lei che di natura era timida e riservata: ma ci era finita piano piano, come ci fosse stato un disegno del destino. Era partita da una sostituzione, poi un periodo più lungo e poi un altro ancora più lungo, e via via era arrivata a quella sua presenza fissa. Il telegiornale, all’ora serale.
Non c’era stato bisogno di fare emergere particolari doti, c’era già tutto in lei: un volto rassicurante e gradevole, la voce pacata, un aspetto giovanile, dato che, pur avendo quarant’anni, ne dimostrava dieci di meno.
Ecco, doveva andare in onda. Doveva sorridere, parlare,  annunciare i filmati, dare le solite notizie purtroppo brutte o poco piacevoli. Le stesse cose di ogni giorno. Ma quella sera c’era un servizio finale. Un filmato su Parigi. Lei lo annunciò con un sorriso sulle labbra, era naturale fare un bel sorriso quando si parlava di Parigi.
Pochi minuti, un servizio sui Campi Elisi, sguardo sulla città dell’amore, secondo il sentire comune. Quando uno era innamorato, proponeva all’amata di fare un viaggio, anche breve, a Parigi. Capitava.
Anche a lei era capitato. Parigi… La brezza di un mattino di inizio estate, quel fresco che poi diventava caldo, cinque giorni da sogno in un hotel stupendo, la migliore cucina francese, ristoranti raffinati, un abito corto colorato che assomigliava a quel modo di vestire delle francesi, sobrio e civettuolo insieme, molto femminile. Essere felici a Parigi non era difficile, se si aveva accanto un uomo bello, con tutte quelle doti che piacciono alle donne, la gentilezza dei modi, la forza per proteggerle, la tenerezza e il sapere ascoltare. Tutte cose racchiuse in un uomo, quella cosa che si poteva definire con quella parola così usata, anzi abusata, fontana benefica, scrigno delle meraviglie, sensazione magica e misteriosa. Definirlo amore poteva sembrare riduttivo.
Parigi scorreva sotto i suoi occhi sul video, i Campi Elisi e Place Vendome, ed ora un bistrot. Sembrava che lì ci fosse tutto il bene del mondo. La cioccolata calda, un dolce assaggiato in due. Ridere, ridere, ridere alle sue battute, perché era anche un uomo brillante, lui.  Ridere e sentire così vicina la loro vita insieme, in una casa, con un piccolo giardino in cui tenere un cane, andare per negozi ed arredare insieme il loro nido, pezzo dopo pezzo, come si costruisce un amore, una storia importante, un mobile, poi un altro, poi un cane che diventa come un figlio, poi un figlio…
Parigi era mistero, una dea che le faceva vedere l’amore, dopo tante delusioni. Non era vero che le donne belle erano felici in amore, che trovavano uomini appena si voltavano: non era stato facile per lei fino ad allora, poco le interessavano i facili corteggiatori, e le storie che duravano era rare.
Parigi, Parigi, Parigi, Parigi e la notte, la follia, un bacio sulla Senna, Parigi e mille promesse, colori che riempivano i sogni, la vita che sarebbe stata lì a divenire. Una vita felice, e lei… una donna innamorata.
Non si può essere infelici a Parigi, se lo si è non si è proprio normali… L’aveva sentita dire una volta, questa frase.
Le immagini del filmato stavano finendo, c’era stata da sottofondo la voce di Edith Piaf, la sua canzone “La vie en rose”. Donna sfortunata in amore, Edith Piaf. Amore ricercato tutta la vita, quasi una maledizione il trovarlo e perderlo, gli dei cattivi che danno alcune cose, fama, denaro, ma l’amore lo fanno solo intravedere, e c’è qualcosa di beffardo e terribilmente crudele in questo, nell’amore intravisto e poi portato via.
Edith Piaf aveva fatto sognare il mondo intero, non solo i francesi, e la sua voce vibrava ancora e commuoveva,  musica di sottofondo di tanti momenti. Era stata infelice, Edith Piaf…
La felicità sgretolata, poco dopo il viaggio a Parigi. Un incontro, in treno. Un incontro in treno che cambia la vita di lui, un’altra donna, con chissà quali requisiti, che gli si era seduta accanto e che gli aveva fatto perdere la testa. E a nulla erano valse quelle sue  parole, terribilmente di circostanza, “vedrai, troverai un altro uomo che ti amerà come meriti, sei una persona speciale”, “sono cose che succedono, non l’avevo previsto”.
Si può portare dentro un lutto e dovere sorridere tutte le sere, davanti a milioni di persone, celare quel lutto senza che nessuno si accorga di un’inclinazione malinconica della voce, degli occhi che vorrebbero  piangere,  di lacrime rinchiuse in una stanza della mente, da cui usciranno poco dopo, in auto, o a casa.
Vita che passa, la felicità toccata e svanita, come Edith Piaf, usignolo, scricciolo, così fragile e allo stesso tempo forte, da andare in scena anche dopo la morte dell’amato.
Ecco, era svanita la voce di Edith Piaf e lei doveva sorridere, dire le solite frasi di circostanza, il telegiornale stava finendo, augurare a tutti buona serata, fare credere che tutto andasse bene.
Ma quanta tristezza in quegli occhi, quando si alzò dalla sedia… Nessuno, di quelli che erano in studio, lo notò… Lei diede loro di spalle, amara sensazione, peso rinchiuso dentro un’anima ferita. E quando si girò aveva il solito, rassicurante, sorriso. 

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