domenica 12 giugno 2016

Magia del “regolo”, tra fiaba e tecnologia

di Paolo Brondi

Ci sono libri che vengono pubblicati e pubblicizzati con gran stuolo di immagini e fanfare. Altri, pur d’indubbia rarità e bellezza, restano nell’ombra e quasi ignorati. È il caso del libro che s’intitola Il Regolo (Libreria Editrice Fiorentina, 1978).
L’autore, Giuseppe Lisi (Firenze 1929), si è posto il fine di ricercare i tanti modi in cui il “regolo” sia presente nella vita contadina, affascinato fin da bambino da parole fiabesche del tipo “Il regolo, o fato, vola soffiando fuoco: quando muore s’interra e diventa una vagheggiola (un vomere a forma di triangolo isoscele)”.
Si è calato con profondo amore nell’humus contadino, trascinato via via in una corrente che sfocia in altro, mettendo in luce sia la materialità di oggetti, amuleti, ornamenti, di uso comune, sia l’aspetto fascinoso di canti, preghiere, lunari popolari e superstizioni. Ne emerge un mondo contadino povero di pane, ma ricco di immaginose cabale sulle quali si decidono le semine, svettano gli alberi, fumano i camini. Un mondo che non esce dalla dimensione del mito, sospeso com’è fra turbini di cielo e oggetti di ferro, fra repellenti squame e occhi incandescenti che impietriscono, tra terrori che sorvolano come uccelli le millenarie campagne e il freddo desolato degli interminabili inverni.
Fra questi, il regolo, un serpe leggendario, detto anche sapido sordo: al suo avvicinarsi si sente una musichina, uno stridio, un particolare fiato; la vista piano piano si annebbia, si registra un’assenza, un torpore. Tutto questo, mentre nel passato scaldava l’animo e arricchiva la logica dell’immaginario, oggi che lo stesso mondo contadino è tutto tecnologico e programmato, e il terrore seminato fra la gente si chiama violenza, terrorismo, inquinamento, sembra destinato a rimanere un debole residuo di una vita immemorabile se non ne salviamo il valore come di una cultura che continui a donarci quella massa visionaria che tuttora preme su tutti noi.

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