martedì 24 ottobre 2017

La bottiglia d'acqua

L’acqua, evocata in modi spesso diversi, è il tema ricorrente di questi "Racconti", e forma il filo principale di una trama sottile di significati e di esperienze di vita

di Marina Zinzani
Tratto da “I racconti dell’acqua”
(Commento di Angelo Perrone)

(ap) L’acqua è elemento comunque prezioso, non potremmo mai farne a meno. Toglie la sete soffocante, è più importante per la sopravvivenza del cibo stesso, provoca un piacere gradito e sottile quando ci rinfresca dopo la fatica, ma ci allarma e spaventa se ha le forme impetuose e travolgenti dell’uragano e delle tempeste. Ci solleva permettendoci di nuotare ma può anche travolgerci facendoci sprofondare nell’abisso, in un gioco di ruoli che si alternano e scambiano in brevi istanti.
Simbolo di energia, di vitalità, del divenire stesso. Proviene dalle sorgenti e dal mare, dai laghi o dai fiumi, è limpida e sporca, stagnante oppure increspata. Un filo riconduce l’acqua al liquido amniotico, nostro habitat sicuro e rassicurante per i nove mesi della gravidanza. E’ essenza del corpo, in gran parte fatto proprio di liquidi. Composto prevalente dell’ambiente naturale nel quale scorre lenta o tumultuosa la nostra vita. Può farci sobbalzare nella paura, o distenderci serenamente provocando benessere fisico e dilatando la misura del tempo e dello spazio.
Anima i nostri sogni percorrendoli in forme mutevoli come i sentimenti, all’inseguimento di significati sfuggenti a chi è vigile e cosciente. Richiama sensazioni inquiete di incontrollabilità, alimentando immagini angosciose di sperdimento. Offre l’idea di un rifugio sicuro da qualche parte lontana quando la realtà è poco piacevole.
Attraversa anche la parola scritta di questi “Racconti dell’acqua”, come protagonista discreta e misteriosa, mai sfacciata e proterva, di storie tra loro diverse per intensità e stile e apparentemente dedicate ad altro. Così questi racconti, nella narrazione di altro, finiscono per dare rilievo proprio a lei, l’acqua, scoprendone le molteplici dimensioni di senso. Mostrandolo come elemento così importante ed utile ma anche tanto fragile e precario: a volte inquinata, sprecata, impoverita da un clima reso ancora più pazzo dalla follia dell’uomo.
L’acqua si accompagna a riti che scandiscono i tempi della vita, dal nutrimento alla purificazione alla stessa morte. Comunque preziosa per dirci, anche attraverso le parole di brevi racconti, chi siamo, o vorremmo essere.

Erano giorni che Emma faceva sogni inquieti. Eppure aveva davanti a sé un lungo periodo di riposo, un meritato riposo dopo le fatiche scolastiche. Erano da poco finite le scuole e stava vagliando se concedersi una vacanza alle terme di Ischia con la sua amica Laura, un momento che si preannunciava piacevole, almeno sulla carta.
Erano lontani gli anni in cui il marito programmava le ferie, la classica settimana in montagna, a camminare per i boschi e a riempirsi d’aria pulita i polmoni, e lei l’assecondava. Amava  tanto la montagna, suo marito.
Ricordi. Ora c’era un’altra realtà da anni. Era sola, lui se n’era andato, la classica sbandata per una donna più giovane ma una cosa seria, con tanto di convivenza e figlio dopo un anno. E a lei era rimasto ben poco, di tutti quegli anni dedicati a lui.
Anni dedicati non solo a lui, ma anche alla scuola. Ai suoi ragazzi. Dieci anni di matrimonio e dieci anni sui banchi di scuola, ad insegnare lettere. Lavoro che l’aveva piano piano assorbita, stancata, prosciugata. La stanchezza si era accumulata ogni giorno,  e aveva inciso, sì, lo sapeva,  aveva inciso anche nel rapporto con suo marito. Lui avrebbe voluto una compagna più sorridente, più leggera.
C’erano state tensioni nella sua scuola, da anni duravano, malignità fra colleghe, quasi un sottile mobbing dalla preside. Lei si era ritrovata qualche volta anche a piangere, in casa, e il marito l’aveva consolata. Ma col tempo ogni sorriso sembrava essersene andato per sempre, per sempre.
La scuola finita, i mesi davanti di riposo, e sogni inquieti. Il tempo a disposizione per se stessa, in una casa vuota. Trovarsi già un po’ avanti negli anni senza un compagno, solitudine alla sera, solitudine durante il giorno, e a volte un pensiero: chissà se con un figlio, chissà se lui l’avrebbe lasciata…
Pensieri, ora inutili. Voglia di fare, di curare il balcone, di comprare nuove piante, di sistemare qualcosa in casa. Programma a teatro,  un paio di serate di musica classica a cui poteva andare con Laura, e poi la settimana alle terme di Ischia, sì, sarebbero stati bei giorni.
Il telefono suona. Chi sarà?
“Lei è la professoressa di Cristina Rossi? Lo sa cos’è successo a mia figlia, vero?”
Parole e domande, domande e risposte.
“Sì, sì so la storia, purtroppo… “
“Vorrei parlare con lei, professoressa. A che ora possiamo vederci?”
Il bar sotto casa diventa luogo  inopportuno, voglia di fuga, voglia di sottrarsi a quella donna che si presenta poco dopo con gli occhialoni scuri e un impermeabile beige. E’ una bella donna, forse ha la sua età. E’ la madre di Cristina, l’ha vista qualche volta, l’ha ricevuta per la figlia. Cristina è brava, ottimi voti, nessun problema, le aveva più volte detto.
Si sedettero in un angolo, cosa gradisce? Si chiedono queste cose ad una madre che ha perduto sua figlia, rientra ancora la vita, con le sue piccole cose, cosa si prende al bar,  nel volto terreo di una donna che non sa darsi pace?
Pensieri, dubbi, riflessioni, prima di vederla. Ma poco il tempo per sapere cosa dire, per immaginare ciò che lei le avrebbe chiesto.
Volto indurito ed occhi arrossati, quando si tolse gli occhiali: la madre di Cristina la guardava, lo sguardo sembrava penetrarla, aprire tutte le porte, fatte di frasi convenevoli, e andò dritta fino in fondo, in una precisa domanda.
“Mia figlia aveva scritto un tema, pochi giorni prima di morire. Lei l’ha letto, e non ha fatto niente, non ha capito il malessere che aveva. Poteva chiamarmi, anche parlarle in privato, erano parole forti, ho letto quel tema.”
“Non credo ci forse qualcosa di particolare in quello che aveva scritto, era chiaro certo  il disagio che hanno tutti i giovani oggi.”
“Non ha compreso niente, quindi… se io avessi saputo cosa l’avvelenava da tempo… se io avessi immaginato che razza di compagni aveva, il menefreghismo anche degli insegnanti… lei poteva dire qualcosa, comprendere, chiamarmi…”
Il tema. Parlava dei bulli. Ma in modo generico. Erano  pensieri generici. Cosa significava generico? Che accade a tanti, a entità astratte. No, a persone. Era quella ragazza dai capelli lunghi, con l’apparecchio ai denti, il viso dolce e delicato, quell’entità astratta? Era di se stessa che parlava?
Sapeva, lei sapeva, lei, l’insegnante di lettere sapeva. Sapeva che certi soggetti facevano scherzi di cattivo gusto a dei compagni, che prendevano di mira alcuni. Sapeva e aveva taciuto. Mettersi contro certa gente… domani sarebbero arrivati i genitori, quelli erano figli di persone importanti anche… no, meglio tirare avanti, sono cose da ragazzi, se la sanno cavare i ragazzi…
Cristina no. Cristina non ce l’aveva fatta, ed aveva gridato in un foglio di carta, in un banale tema in classe, il suo tormento, l’ansia che assaliva prima di andare a scuola… “Sono violenti quelli, devo tirare dritto, non rispondere, devo fare finta di niente, finirà, finirà quest’ anno scolastico, poi non li vedrò più, devo studiare, applicarmi, devo far finta di niente, far passare i giorni”: è questo che aveva pensato, nel segreto di una stanza, con gli occhi bagnati, Cristina? E dove aveva preso la forza per fare quel gesto, per dire basta?
“Acqua, bevo solo un bicchiere d’acqua” rispose la madre di Cristina al cameriere venuto per l’ordinazione.
“Tè, io prendo un tè….”
Ecco, abbassando gli occhi, sapeva che qualcosa doveva dire a questa donna. Doveva fingere, proteggere la sua categoria, già abbastanza stressata e denigrata, dire che non poteva accorgersi di quello che succedeva nella testa di adolescenti inquieti. Doveva trovare le parole giuste, per cercare di dare una consolazione a questa madre. Ma non le venivano. Niente.
“L’ho letto il tema, e vi ho visto amarezza, questo sì, ma non più di altre volte. Cristina aveva una visione matura, profonda delle cose, era una ragazza molto sensibile…”
Sì, le parole giuste. Cos’altro poteva dire? Atmosfera silenziosa, c’è poco da dire, la madre si asciuga le lacrime con il fazzoletto, è lì, questo è il suo volto, il volto di chi ha appena perso una figlia perché ha fatto un volo, ed ha lasciato solo un biglietto, chiedendo scusa.
Acqua, arrivò una bottiglietta d’acqua con un bicchiere,  e il suo tè. Emma non aveva il coraggio di guardarla negli occhi, fissò a lungo la bottiglia dell’acqua, ne lesse l’etichetta, era naturale, era una marca che conosceva, doveva comprare anche lei l’acqua.
Il suo tè, un sorso, troppo bollente.
“Non si è accorta di niente? Di come stava mia figlia? Avrebbe potuto salvarla, forse… Quel tema farebbe accendere i campanelli d’allarme a qualsiasi persona abbia un po’ di intuizione, un cuore…”
Acqua, la marca, la bottiglia ancora chiusa. Rimase chiusa. La donna si alzò, mise gli occhiali neri e si allontanò, senza salutarla.

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