lunedì 16 ottobre 2017

Il mostro tra noi

Prevenzione e interventi per contrastare la diffusione della violenza nelle relazioni affettive. Una riflessione in occasione della giornata nazionale della mediazione familiare del 19 ottobre

(ap) Si ampliano in Italia e in Europa gli interventi che tendono a favorire sul territorio percorsi di mediazione familiare nella gestione dei conflitti in ambito relazionale/affettivo, utilizzando conoscenze specifiche della psicologia, sociologia, pedagogia, anche del diritto.
In Italia la prossima legge di bilancio prevede lo stanziamento di 5 milioni annui nel triennio 2017-2018 a sostegno  dei corsi e delle strutture regionali e locali di mediazione familiare. L’Europa ha promulgato un bando di 2,5 milioni di euro a favore di associazioni che lottano contro la violenza di genere. Intanto si celebra il 19 ottobre la giornata nazionale della mediazione familiare.
L’impegno in questo settore migliorerà la situazione? Contribuirà alla fine a ridurre numericamente le aggressioni contro le donne, gli stupri, i gesti efferati di omicidio commessi di partner rifiutati?
Intanto, quali spazi di contiguità vi sono tra il campo della mediazione familiare e la giustizia penale? Può essere utile una riflessione, aperta a professionalità diverse, per la ricerca di territori comuni, in tema di prevenzione e di intervento diretto.
A prima vista, gli orizzonti appaiono molto lontani. La mediazione familiare mira a prevenire i conflitti o a regolarli in modo imparziale, senza giudizi di merito: è tendenzialmente alternativa al diritto. La giustizia penale interviene invece solo dopo l’insorgenza del conflitto e ha come suo scopo finale proprio la decisione, il giudizio sul fatto già avvenuto. Non vi è mediazione possibile tra il carnefice e la vittima.
Ma è soprattutto la natura del conflitto a distinguere gli operatori dell’uno e dell’altro campo. Solo nel diritto penale il conflitto si presenta nella sua forma più degenerata ed estrema, il superamento dell’ultimo limite, la commissione del crimine.
Eppure l’esperienza indica che la realtà dalla quale tutto ha inizio è la medesima: il rapporto tra persone in cui è presente un legame di tipo affettivo e/o sessuale. Può essere nell’ambito della famiglia, quando esiste un vincolo giuridico o di fatto; oppure in situazioni relazionali più elastiche e indefinite (a scuola, nello sport, durante il lavoro) e in cui comunque il confronto di genere è presente e determinante. Qui le forme violente possono risultare di tipo seriale (come nei maltrattamenti in famiglia e negli atti persecutori, lo stalking) oppure concretizzarsi in condotte “singolari” (la violenza sessuale, l’omicidio).
Le statistiche mostrano che in queste situazioni le vittime sono prevalentemente donne e che la maggior parte dei casi di violenza si verifica nell’ambito familiare/affettivo/relazionale. Quando sono oggetto di attenzione nelle indagini sociologiche o nell’inchiesta penale, queste situazioni presentano caratteri costanti e analoghi: emerge soprattutto la fragilità e la solitudine della vittima, l’arroganza incontrollata dell’aggressore.
Ebbene sono questi gli aspetti che rendono possibile la degenerazione delle relazioni e che insieme allontanano nel tempo e spesso pregiudicano gli interventi utili, a cominciare da quelli delle istituzioni e delle autorità. La vittima non denuncia tempestivamente  il crimine anche mascherando la verità dei fatti (“sono caduta dalle scale”), si illude di modificare la situazione con il partner (“cambierà, mi ha promesso che lo farà), non riesce soprattutto a “leggere” con equilibrio e razionalità i fatti che accadono (“lo amo sempre”).
Una condizione sociale che oggi è aggravata, in certi ambiti di origine extracomunitaria, dal pregiudizio religioso, dall’arretratezza dei costumi, dai divieti di una cultura che non ha fatto i conti con la critica razionale, e non ha compiuto una approfondita riflessione sulla “parola ispirata” generando ulteriori conflitti (dal velo in testa, al divieto di mostrare il corpo, alle imposizioni di costume nei rapporti fra i sessi e verso l’autorità maschile).
D’altra parte un’arcaica concezione propria di certa cultura maschilista anche occidentale identifica in modo perverso l’amore con il possesso. E’ un desiderio senza limiti, privo di controllo, esigente nel suo soddisfacimento immediato, che porta a forzare qualsiasi confine che venga prospettato dall’interlocutore, o sia imposto dalla società tutta. Non c’è rispetto per le decisioni dell’altro, per la sua autonomia, per la libertà della persona e per le sue scelte. Un atteggiamento che a sua volta genera, nel suo autore, la schiavitù dei comportamenti, una coazione a ripetere l’illecito.
Problemi di crescita personale, disfunzionalità relazionali, dipendenze lavorative (“ero minacciata d’essere licenziata”) o sentimentali della donna (“mi diceva ti amo, e mi sentivo bella”), rapporti di potere maschio-femmina, marginalità culturale, mancanza di supporto sia intellettuale che emozionale: sono i fattori che poi espongono la vittima ad un percorso lacerante e difficile anche nel processo penale; spesso non regge allo stress, all’aggressività della controparte, alle insidie della memoria stessa. È pregiudicata la credibilità personale mentre la efficacia testimoniale nella ricostruzione dei fatti si mostra lacunosa.
La donna, spesso così fragile e isolata, si perde nelle tortuose strade della giustizia, ne esce ancora più indebolita e incapace di ricominciare a vivere in modo equilibrato. Non trova sul suo cammino forme di sostegno emotivo,  e competenze che aiutino a ristrutturare una coscienza lacerata dal dolore.
D’altra parte, sotto il profilo dell’autore del crimine, dell’aggressore e carnefice, quando il processo riesce a concludersi in modo lineare, il sistema genera spesso una situazione che è stata definita, non impropriamente, come “ibernazione giudiziaria”. Il colpevole sconta la sua pena, ma quando esce dal carcere torna a delinquere rapidamente, ricerca la precedente vittima o si rivolge ad altra (“Torna in cella il pedofilo che aveva abusato di numerose bambine”, titolano di recente i giornali).
La pena, priva di un sostegno professionale che aiuti il colpevole a una riconsiderazione dei propri atti e a una ristrutturazione della propria (deviata) personalità, si sottrae al suo compito costituzionale d’essere non solo una punizione della condotta criminosa e della colpa, ma anche un essenziale strumento di rieducazione personale e sociale.
Il mostro che colpisce in modo così feroce e sanguinoso è vissuto tra noi, ci è stato accanto, lo sarà anche quando, dopo un tempo più o meno lungo, tornerà a vivere qui nelle case nostre o in quelle vicine. La violenza, così prossima alla nostra esistenza, è ancora più temibile perché lasciata libera di operare in solitudine e non è contrastata da interventi efficaci.
Considerazioni inquietanti accompagnano tanto le esperienze di vita delle vittime quanto le storie dei loro carnefici. Esse giustificano un grido d’allarme perché queste vicende hanno costi umani e sociali intollerabili. Recano una sfida e indicano una necessità irrinunciabile: ricomporre il tessuto sociale lacerato e problematico. Esserne consapevoli è il passaggio fondamentale. Poi può iniziare il confronto tra professionalità diverse, istituzioni, associazioni, singoli operatori, per dare corso alla collaborazione virtuosa di tanti, ciascuno nel proprio settore, in nome di un ritrovato impegno civile.

2 commenti:

  1. Bella , profonda e completiva è la disamina del problema violenza tanto che non si può aggiungere altro che una nota: I bambini che assistono a scene di violenza domestica o che ne sono stati vittima in prima persona, manifestano problemi di salute e di comportamento: disturbi di peso, di alimentazione, del sonno. incontrano difficoltà anche a livello di studio, di frequenza scolastica, e di relazioni amicali. Non è raro la loro ricerca di fuga o di atti autopunitivi
    Paolo Brondi

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