giovedì 9 novembre 2017

Senza paura, della nostra storia

Il “Sessantotto”, una stagione tormentata: passione, desiderio di rinnovamento, spirito di rivolta produssero un cambiamento dei costumi e il riconoscimento di nuovi diritti. Eppure da lì ebbero origine gli anni del terrorismo. Il filo conduttore del fondamentalismo ideologico da quella esperienza ai giorni nostri

di Angelo Perrone *

Cosa rimane del ’68? Una mostra dal titolo “E’ solo l’inizio. 1968” (sino al 14/1/18), alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma, si propone di raccontare quel periodo storico attraverso i possibili intrecci con il mondo dell’arte, ricordando le “scintille creative” che animarono alcuni movimenti dell’epoca: il minimalismo, il concettuale, l’arte povera.
Era l’anno dell’ «immaginazione al potere»; del «vietato vietare»; del «lavorare meno, lavorare tutti»; della «lotta dura, senza paura». Degli ammonimenti minacciosi: «noi prenderemo, noi occuperemo». Dell’invito a scelte esistenziali: «fate l’amore, non la guerra» evocando orizzonti diversi: «mettete fiori nei vostri cannoni». Slogan urlati, scritti sui muri, ripetuti nelle piazze, nelle fabbriche e nelle assemblee infuocate di studenti ed operai. Nutriti di passione, desiderio di liberazione e di rinascita, anche voglia di un cambiamento radicale.
Era il «Sessantotto», una stagione, alla fine degli anni ’60, convulsa e accelerata, di cambiamenti sociali e di contestazioni a tutto campo. Una fase di ribellione delle giovani generazioni, attratte dall’ideale di rivoluzionare la società e la politica stessa, ponendo in discussione i grandi sistemi che governavano il mondo, dal capitalismo occidentale al socialismo reale. Un periodo anche contraddittorio: Pier Paolo Pasolini segnalò che il rifiuto nei confronti di valori ritenuti borghesi era formulato dagli stessi figli della borghesia contestata. «La borghesia si schiera sulle barricate contro se stessa, i “figli di papà” si rivoltano contro i “papà”. Sono dei borghesi rimasti tali e quali come i loro padri».
A distanza di cinquant’anni, lo scenario di quelle rivolte è radicalmente mutato. Sono superate alcune delle principali condizioni che costituirono il motivo scatenante delle lotte: tutto ebbe inizio infatti nei campus americani dove gli universitari manifestavano contro la guerra nel Vietnam, giudicata imperialista, oltre che in difesa dei diritti civili e contro le discriminazioni razziali ai danni degli afroamericani.
In Italia, la prima Repubblica scricchiolava per il fallimento dei progetti riformistici dei governi di centrosinistra, guidati dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista, incapaci di fronteggiare la crisi produttiva dopo l’esaurimento del “miracolo economico” che nel dopo guerra aveva risollevato l’Italia. La continua emigrazione interna dal sud al nord, per cercare lavoro, sembrava non avere sbocchi concreti. Il disagio sociale era crescente.
Temi e situazioni di un’altra epoca, guardando soltanto a quelle “parole d’ordine”. E così possono apparire lontani gli echi delle contestazioni di piazza, delle occupazioni di fabbriche ed aule universitarie, delle assemblee permanenti, che dettero voce collettiva alla rivolta di una intera generazione.
Ma la protesta e il fermento sociale investirono profondamente tutta la società italiana ed erano destinati a provocare cambiamenti radicali. Non ci furono campi, dalle istituzioni sociali (famiglia, scuola, lavoro) al costume, ai rapporti tra generazioni e a quelli di genere, fino alla condizione femminile, nei quali non si manifestasse la protesta di tanti. Radicale appunto, e generalizzata. Senza margini di confronto o dialogo.
Una rivolta, con una identità anagrafica costante (giovani che si affacciavano al mondo degli studi e del lavoro) e riconoscibile anche esteriormente. Persino la moda era omologata su canoni rigorosi (jeans, eskimo, capelli lunghi), perché anch’essi volevano essere un segnale di diversità rispetto al passato e di ribellione nei confronti delle consuetudini borghesi.
Il motivo conduttore dell’insofferenza fu certamente rappresentato dalla contestazione sistematica del “principio di autorità”: nella scuola, nella famiglia, nella fabbrica, nella stessa vita politica, attraverso la denuncia di una sorta di concezione padronale nella vita pubblica che rendeva “di classe” le sue strutture. La spinta antiautoritaria ed egualitaria, unitamente alla richiesta di forme di democrazia diretta e di partecipazione, mirava a capovolgere gli schemi gerarchici nelle relazioni di lavoro, di studio, persino tra i sessi.
La contestazione più dura investì i ruoli ritenuti rappresentativi del potere gerarchico, facente capo alle figure sociali primarie: il padrone dell’azienda, l’insegnante di ogni livello, il maschio in genere nei suoi atteggiamenti verso il mondo femminile. Allora, occupazioni delle aule studentesche e delle fabbriche, contestazione anche fisica degli insegnanti e dei “padroni”, mobilitazioni di piazza in nome del femminismo.
Un trauma sociale dal quale, nel tempo, derivarono frutti e conseguenze di segno molto diverso. Da un lato, per esempio, negli anni ’70, le norme dello statuto dei lavoratori a difesa della dignità degli operai e del valore sociale del lavoro, e quelle, tempo dopo, del nuovo diritto di famiglia nel 1975 sui rapporti uomo-donna, e genitori-figli. Dall’altra, però, anche la violenza politica, con le stragi, i sequestri, le rapine a scopo di autofinanziamento della lotta armata e gli omicidi eccellenti e simbolici compiuti dai terroristi delle diverse sigle. Il conflitto tra generazioni dava origine, drammaticamente, anche (se pur non solo) ad esperienze collettive di sangue e terrore.
La diversità delle strade intraprese dai protagonisti di quella stagione turbolenta documenta non solo le contraddizioni di un’epoca e la varietà degli orientamenti personali ma soprattutto, l’intreccio profondo tra “vizi e virtù” che caratterizzò un intero momento storico e una generazione di giovani.
Seguendo questo sottile filo, il ’68 costituisce un tessuto di esperienze e di idee, utili anche per leggere le dinamiche politiche e sociali di oggi, e persino per interpretare certe spinte fondamentaliste che attraversano pericolosamente proprio il nostro presente.
Quella stagione rappresentò per molti versi un trauma virtuoso quando la contestazione investì l’assetto rigidamente gerarchico di tante realtà liberandole dalla dipendenza acritica, dalla soggezione immotivata, dal formalismo. E quando mise in crisi costruzioni sociali basate esclusivamente su principi di supremazia e di potere, che apparivano privi di giustificazione.
Peraltro, il benefico tramonto di quell’autoritarismo padronale ha rischiato di travolgere l’autorevolezza della funzione di guida supportata dal merito e dalla competenza. Un conformismo al ribasso, nel nome dell’ignoranza e dell’incapacità professionale per esempio nella pretesa del livellamento degli studi e del conseguimento del “18 politico” per tutti.
Inoltre la contestazione nelle piazze si è accompagnata al radicalismo sistematico della critica rivolta alla società tutta. Ne è derivata una rottura totale con il passato, il mancato riconoscimento del valore della storia, quale si era tramandata fino a quel punto nella vita di ciascuno e nell’evoluzione sociale. L’assenza di riferimenti teorici alternativi ha portato a sostituire il vecchio con un nuovo ancora più ingombrante e pericoloso, rappresentato dai tanti miti, Mao, Lenin, Marx, invocati per dare una svolta all’esistente.
L’osservazione di Pasolini a questo proposito era assai più sottile di quanto potesse sembrare all’apparenza. Non solo i critici del sistema ne facevano pur sempre parte integrante, ma piuttosto i figli, contestando i propri padri, li sostituivano con figure (“padri simbolici”) ancora più dominanti, superbi e sovraumani perché recavano la promessa impossibile di riscrivere ex novo la stessa storia umana.
Si rompeva il patto tra le generazioni, a partire dal suo nucleo centrale, il rapporto familiare figli - padri. Soprattutto, la rottura avveniva nel modo più illusorio che la vicenda umana conosca, rinunciando a fare i conti con il proprio passato, con i valori (condivisibili o meno) che aveva espresso, nella convinzione fallace che tutto potesse avere un nuovo inizio, che tutto potesse ricominciare daccapo. Nulla sarebbe stato più come prima, ma tutto forse sarebbe stato più difficile, rendendo fragili le conquiste che sarebbero poi venute.
Infatti ogni “rivoluzione” di questo tipo riporta l’umanità al suo punto di inizio, non la fa progredire nel solo modo praticabile, il confronto con i problemi del proprio tempo. Il terrorismo, con il suo odio per l’esistente e per il “già costruito”, ha implicato, per una intera generazione, la rottura con l’esperienza passata, e, simbolicamente, con i propri padri, e ha comportato l’esercizio folle di una rimozione del “debito” maturato verso la propria storia, con la rinuncia ad assumerlo come eredità da riconquistare, quindi come il compito da svolgere nella vita mediante un serrato confronto con l’attualità.
La violenza delle azioni terroristiche riflette in pieno una rappresentazione della realtà nella quale, in assenza di una trasmissione effettiva di doveri tra generazioni, non rimane che l’esercizio spietato, atroce, di un potere tirannico di supremazia sull’uomo, quello esercitato verso chiunque venga percepito come un nemico (giudice, o sindacalista, giornalista, o politico): modello peggiore della realtà che si voleva combattere. Un mostro più inquietante di quello rifiutato, come ha rappresentato sarcasticamente Woody Allen, nel film Il dittatore dello stato libero di Bananas, con la figura del rivoluzionario diventato più spietato del dittatore destituito.
Non ci si libera dalle ombre della storia se non facendosene carico. Perché la propria storia non è un passato ingombrante da rifiutare in fretta, ma un bene dal quale partire per compiere un lungo viaggio di ricerca dell’identità attuale: dalle domande sul passato, su ciò che eravamo, possiamo raccogliere risposte su ciò che possiamo essere oggi.
L’illusione perversa di una liberazione dai vincoli del contingente, senza alcun faticoso esercizio quotidiano di conoscenza e valutazione, accompagna in verità tutte le concezioni fondamentalistiche, siano esse della politica come della religione. Un radicalismo ideologico che si manifesta in forme differenti ma avendo in comune il rifiuto del principio di realtà nell’approccio ai problemi che si incontrano: una minaccia che attraversa anche gli anni più recenti.
Il rifiuto della storia, per esempio, spinge a cercare disperatamente una “autorità potente” che – in sostituzione degli idoli fallaci della modernità, come il consumismo, l’arricchimento, la libertà dei costumi - guidi l’umanità in maniera infallibile: è l’elemento che induce a predicare la follia di un Dio padrone e malvagio che pretende l’uccisione degli infedeli e il loro sanguinoso sterminio. Come mezzo per contrastare la corruzione imperante nella società e finalmente purificare il mondo dal male.
È sempre quel rifiuto del processo storico che esalta il mito angosciante - evocato in molti paesi, non solo l’Italia – della totale purezza rispetto a tutto il mondo circostante: dalle istituzioni ai circuiti mediatici, dai partiti alle strutture pubbliche tutte. Senza tenere conto che proprio l’esaltazione di una diversità assoluta e radicale, svincolata dal riconoscimento del “debito” comune verso la propria storia, finisce per rendere sterile e priva di speranza ogni critica al sistema, e impossibile la costruzione di un nuovo mondo.
Da quel memorabile ’68, è scaturita anche una successione di eventi alimentata da un profilo fondamentalista (pur variamente declinato dal terrorismo politico, dallo stragismo pseudoreligioso, dal populismo politico e sociale), comunque connaturato a forme di contestazione assoluta del presente. Una dinamica, che continua a farci riflettere anche ai giorni nostri. E a preoccuparci.

* Leggi anche:
Alla Galleria Nazionale di Roma, le vibrazioni del Sessantotto in mostra, di Angelo Perrone,
La Voce di New York:

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