domenica 24 dicembre 2017

'Sta figuraccia

(ap) Alla fine è morto, prematuramente, e ingloriosamente. Non è arrivato neppure a Natale. Ha perso subito gli aghi dei suoi rami appena giunto dalla val di Fiemme. E’ rimasto così a svettare, sconsolato e triste, con le poche palline colorate e le scarse luci, che l’amministrazione cittadina gli aveva messo addosso. I romani, sarcastici, lo hanno subito soprannominato “spelacchio”.
E’ l’abete montato a Roma nella piazza principale, vicino al Campidoglio e al Vittoriano, per celebrare la festa cristiana più importante. Meta ora di pellegrinaggi e di messaggini partecipi della disgrazia, “ti vogliamo bene comunque”, anche se “ti sei suicidato”, e incoraggianti “resisti spelacchio”. Chissà perché lo ha fatto. Forse gli ha nuociuto l’aria della capitale.
Er Pinto, uno dei membri de "I poeti der Trullo", gruppo romano di ragazzi la cui aspirazione è di ravvivare la città eterna con versi da strada, gli ha dedicato questa poesia. Un grido di malinconia, di struggente lamento per le cose che non vanno come dovrebbero, per l’incuria che ci circonda. Ma anche un modo di sorridere delle sventure. Ammesso che tutto ciò basti a consolarci.
Si t’avessero comprato dar cinese
So’ sicuro che arivavi a fine mese
E invece devo dì, t’è annata male
Nun sei campato manco pe’ Natale
Ieri quanno t’ho visto ho detto cacchio
Nemmanco er tempo p’anna’ compra’ l’abbacchio
Che già davanti a li turisti vaghi

Avevi perso quasi tutti l’aghi
Te c’erano rimaste brutte e appese
Tre quattro palle lì, senza pretese
Chiunque te guardava da vicino

Se immaginava legna e ‘n ber camino
“Nemmanco a dì che je lo damo indietro”
“Mejo vede’ er presepe giù a San Pietro
Sperando che “Francesco” pe’ vendetta
Nun j’ha fatto spari’ ‘na statuetta”
Te immagini ‘sta vorta che bordello

Si mancasse dar presepio er bambinello
Artro che Pioppi, Pini, Abeti o Faggi

La colpa ar Papa, invece che alla Raggi
Ma a noi romani de ‘ste figuracce

Nun ce ne frega gnente, so’ fregnacce
Che ormai se semo abituati a falle

De secco c’avemo l’arbero...e le palle.

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