venerdì 9 febbraio 2018

A bassa voce

Antonello (1932), di F. Trombadori
Un viaggio nelle parole, tra ricerca della bellezza e fuga dagli affanni

Poesia
di Marina Zinzani
(Intervento di Angelo Perrone)

Ho viaggiato tanto
sono entrato dentro case
ho ammirato tappeti
vasi di fiori e porcellane
ho letto il male
la paura e il tormento
su  volti sperduti
ho respirato la gioia di un bacio
di una promessa
sussulti
sussulti
ho viaggiato tanto
attraverso pagine e voci.

(ap) Se il ritratto è un genere pittorico così radicato nella storia dell’arte per la spontaneità dell’impulso a raffigurare le sembianze di qualcuno, “Antonello” di Francesco Trombadori ha più di un motivo per incuriosire. Si può coglierlo nel momento storico della realizzazione dell’opera (1932) con l’evidente influenza delle suggestioni neoclassiche sulla pittura italiana. Oppure nel fatto che il soggetto raffigurato, il figlio dell’autore, è stato pure lui uomo di cultura, oltre che politico di rilievo nel secondo dopoguerra, segno di una singolare comunanza spirituale tra padre e figlio, tra artista e modello.
La forma ritrattistica ricorre nell’arte pittorica come filone costante della rappresentazione della realtà, o almeno della sua componente umana. Strumento privilegiato di percezione del mondo esteriore attraverso la corporeità delle persone, il ritratto tuttavia subisce nel corso dei secoli molteplici interpretazioni: dalle raffigurazioni ingenue alle più sofisticate, o addirittura a quelle che massimamente si allontanano proprio dal contatto con il reale che ne costituisce il fulcro centrale.
Al punto che l’immagine restituita dalle opere più recenti prescinde da un’esplicita somiglianza con un soggetto specifico, e diventa mero pretesto per raccontare altro. Così avviene nella pittura contemporanea con le decorazioni geometriche che circondano i tratti della persona in Gustav Klimt, o la decostruzione della realtà propria di artisti quali Pablo Picasso.
La conseguenza è un declino dell’interesse per le rappresentazioni figurative, dunque per gli stessi ritratti, a favore di altre tecniche. E ciò in virtù di quel rilievo primario che via via assume il tema delle componenti interiori dell’animo umano a dispetto dell’interesse per l’esteriorità dei personaggi.
Non solo però. Perché questi temi sono percepiti spesso in opposizione l’uno all’altro, l’interiorità in contrasto con il mondo esteriore, per l’inconciliabilità tra le angosce morali vissute dall’umanità e qualsiasi sembianza esterna che possa apparire impropriamente “rassicurante” in quanto ispirata, sia pure vagamente, al bello in un mondo che lo rifiuta, e dunque fuorviante e falsa.
In controtendenza invece, la pittura di Francesco Trombadori subisce il fascino irresistibile del ritratto, che è concepito secondo i paradigmi di un neoclassicismo, di un ritorno alla bellezza antica della forma esteriore, ma colta nella sua essenzialità, che perciò non manca di modernità ed è pervasa in modo sottile dagli affanni che agitano il presente.
Nei ritratti come “Antonello”, si coltiva il miraggio di una purezza formale della figura senza per questo scadere nella retorica del tempo passato e nell’imitazione di modelli figurativi di un’epoca ormai conclusa. La bellezza è ricercata in modo raccolto ed stringato, senza infingimenti né smancerie. I colori non sono appariscenti né vistosi, e dominano le tonalità meno sgargianti, dall’avorio, al bianco, a quel grigio che pervade lo sfondo.
Una ambientazione che non offre alcun riferimento concreto a specifiche località ma che, proprio per la vaghezza così preziosa dei colori usati, lascia immaginare che tutto si svolga ed accada in uno di quei luoghi di incontro tanto amati dal pittore a Roma, come il caffè Greco di via Condotti, o Rosati a piazza del Popolo.
Luoghi frequentati anche in quel tempo turbolento da scrittori, artisti, giornalisti, che vi trovano un riparo dalle intemperie: isole sperdute di cultura e di ragionevolezza in un’epoca che non vuol sentire parlare né dell’una né dell’altra e che è travolta dall’intolleranza.
Gli occhi, fissi e quasi socchiusi, sono rivolti da Antonello esclusivamente sul libro che le mani riparano dai disturbi esteriori, un bene insostituibile che assorbe ogni sua curiosità, isolandolo da tutto nella concentrazione, nella riflessione, nello studio.
E’ àncora di salvezza, quel libro, in un mare in tempesta. Involucro precario, eppure così prezioso, di sentimenti nobili, gli unici capaci di contrastare lo smarrimento e il senso di perdizione tanto impetuoso e violento.
Nell’isolamento rispetto al mondo circostante, necessario per resistere alle follie di quella stagione, le pagine del libro rimandano un’atmosfera che cessa di essere scarna e desertica per divenire incantata. Come quella che si respira nel meriggio di certe tranquille giornate romane e che ci lascia immaginare stagioni nuove della vita.
La lettura a bassa voce offre raccoglimento ma non astrazione dalla realtà. Anzi aiuta a capire perché essa sia così dura, e le ragioni stesse per cui ci appartiene in tutti i suoi multiformi aspetti, quelli che meno ci piacciono e gli altri, che danno esaltazione e speranza.
Nel gesto di chinarsi sul libro c’è tutto il nostro bisogno insaziabile di conoscenza e immaginazione, la nostalgia delle fantasie lontane e la ricerca della concretezza quotidiana, la trama misteriosa dei sogni che le parole provano a raccontarci: astri di una costellazione infinita.

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