sabato 12 gennaio 2019

L'America di Philip Roth? Poco pastorale

di Bianca Mannu
(Introduzione di Angelo Perrone)

(ap) Una ennesima recensione su "Pastorale americana", il romanzo più famoso del maggior autore contemporaneo americano? Non proprio. Piuttosto, una riflessione che certamente investe la struttura narrativa dell’opera, la costruzione dei personaggi, le tesi sottese all’opera, ma che poi si estende ad altro. Come il carattere stesso della società americana del ‘900. E che giunge a mettere in discussione la capacità degli scrittori, non solo Roth, d’esserne interpreti attendibili rispetto alle ragioni della loro complessità, a partire dalle più vistose contraddizioni.
Il lavoro di Philip Roth, a dispetto dei propositi, degli intendimenti, e persino dei riconoscimenti della critica politica e letteraria, non sembra, scorrendone le pagine, all’altezza di quest’ambizione, osserva Bianca Mannu: troppo impegnativa od eccentrica rispetto alle conoscenze dell’autore, alla sua capacità di porsi davvero al centro dei sommovimenti sociali, di riuscire ad intenderli tutti. Non sarebbe riuscito l’intento di dare voce a tutta la varietà delle componenti sociali: sia a coloro che sono riusciti ad emergere nella competizione sia a tutti gli altri, travolti dai mille ingranaggi di un mondo selettivo. In una parola, per dirla con Primo Levi, “i sommersi”, non solo “i salvati”.
Un punto di vista crudo, dissacrante, persino impietoso, forse dettato da una predominante prospettiva ideologica-politica assunta ad esclusiva chiave di lettura non solo del mondo americano ma anche dell’opera letteraria, nonostante la ricerca, nel testo, di continue decisive dimostrazioni.
Il titolo del romanzo, misterioso e seducente, probabilmente rivela il proposito di elaborare un affresco della società americana contemporanea e quasi di cantarne l’elegia, attraverso il racconto della sua memoria. Trasfigurazione moderna del componimento dei conflitti tra la natura e l’uomo, l’America come situazione idilliaca di un’armonia ai tempi d’oggi.
Se questo era il disegno dell’autore, sul modello di altra celebre “pastorale”, quella di Beethoven, l’impianto narrativo assunto a dimostrazione di quel disegno ideale sarebbe troppo privato e inadeguato. Non solo perché i personaggi rientrano in un ambito di eccessiva familiarità, ma per un motivo ben più rilevante, l’estraneità di essi o almeno di alcuni, alle maggiori dinamiche spesso conflittuali della società americana, tanto da non poter essere specchio fedele di un mondo così complicato e complesso.
I sentieri percorsi dall’autrice per formulare una critica tanto radicale al testo, e di rimando a quella società, hanno comunque il merito di non fermarsi alle apparenze, di voler scavare a fondo in un’opera per evidenziarne gli eventuali limiti, oltre il visibile. Ed è per questo sempre benvenuta ed apprezzabile la sensibilità che colga qualsiasi “aria di chiuso”, ciò che non siamo riusciti a percepire nella realtà che ci circonda, ciò che alla fine ci manca per dar conto di noi stessi e degli uomini che vediamo muoversi, affannosamente, sulla scena della vita.
Prima ancora di giungere alla fatidica pagina 435 - intanto che leggevo le 400 precedenti e attratta mi lasciavo bagnare (ma senza restarne travolta) dalle cateratte verbali che l’autore, con assoluta fede nelle capacità rappresentative e seduttrici della sua prosa, sciorinava davanti alla mia immaginazione - m’interrogavo appunto sul senso di “pastorale” in quanto sostantivo reggente l’aggettivo “americana”. Sul secondo termine c’è ben poco da ponzare: non può che riferirsi agli USA, in quanto rappresentante emblematico dell’intero continente e dello schema di mondo a cui tutti, e specialmente noi europei, ci siamo adeguati, e col quale raffiguriamo noi stessi credendoci, perciò, migliori.
Invece il sostantivo “pastorale” mi incalzava verso un senso per nulla nuovo, benché all’apparenza proveniente da oltre Atlantico. Subito la mia pur titubante memoria faceva affiorare le mie sbiadite informazioni sulle Bucoliche virgiliane, sulle suggestioni campestri e pastorali di Petrarca e giù discorrendo fino all’Arcadia e alla vena naturalistica di Leopardi e dopo ancora fino alle “non pastorali” opere della grande narrativa europea, per esempio I Buddenbrook e America, onirico controcanto, quest’ultima, sul “nuovo mondo”.
Ma durante la lettura, più forte d’ogni altro riferimento, s’è affacciata alla mia mente “La Pastorale” di Beethoven, già antifona della prima grande lacerazione uomo/natura in Europa (dovuta alla prima rivoluzione industriale). La Pastorale beethoveniana rappresenta l’auspicata ricongiunzione dell’umano con la natura di cui è parte. In realtà quel ricongiungimento non ripristina affatto quello primigenio: l’uomo in generale è divenuto un’astrazione rispetto alle sue contrastanti funzioni sociali e la natura è stata variamente alterata in funzione dei destini produttivi. Il possibile ricongiungimento avviene tramite la mediazione dell’arte e della cultura, cioè la natura in scala ridotta rientra nella categoria estetica e l’umano che si congiunge e si rispecchia in lei è l’artista e il suo committente, cioè la classe padronale colta del primo ‘800.
Ed è l’intermediazione dell’arte, tra la vita della specie e ciò che si designa come natura, che irretisce suggerendo che anche Roth abbia probabilmente cercato di immaginare le possibili condizioni per prefigurare una nuova giuntura tra la natura e l’uomo. Ma stavolta l’articolazione si presenta più che mai complessa.
Nella Pastorale di Beethoven resta invisibile l’oscenità infernale del mondo della produzione senza apparente nocumento per la sintesi estetica, mentre Roth non può farlo con la stessa “facilità” e buona coscienza. E non solo perché Roth è di circa centocinquant’anni più giovane, ma perché con lo sviluppo del grande capitale le categorie della natura e quelle dell’umano si sono pluralizzate, ed è difficilissimo articolarle: la meccanica produttiva capitalistica ha reso la natura indisponibile per la fruizione estetica generalizzata e il lavoratore collettivo per un verso risulta deprivato della sensibilità estetica non finalizzata alla produzione, per altro verso la sua sensibilità compressa nello stato grezzo viene catturata in direzione di una bassa estetica, perché questa è incentivo a consumare merci che recano profitto al produttore e non affinano il gusto e la mente del loro consumatore. Inoltre il produttore stesso, o meglio, colui che diventa padrone di un’industria che si vale di lavoro salariato, non si preoccupa delle sorti della natura ed è, talora per le sue origini umili, incolto, come il romanziere racconta di Lou Levov con dovizia di particolari. Il dogma di costui, emblematico, concerne l’incremento dei profitti e la progressiva espansione del capitale. Nel suo pensiero la natura compare in forma di risorse da sfruttare fino alla devastazione, e non cambia di molto se la natura si presenta come acque, suolo, animali, umani.
Lou Levov, per esempio, disloca una produzione a causa della procurata estinzione della specie di criceti che fornivano la pelle da guanto; lui stesso è motore e strumento delle sue fabbriche. Analogamente suo figlio Seymour, è diviso tra college e duro apprendistato in conceria. Quest’ultimo, da adulto, ricco magnate, appare certo più raffinato rispetto al padre (la frequenza del college, i successi sportivi, la scelta degli amici, i luoghi in cui vivere, le cose di cui circondarsi). La sua soggezione al padre appare quasi come un destino che nello stesso tempo riveli una natura antropologicamente elevata in germe, la quale, realizzandosi, tocchi il culmine con il diverso rapporto educativo nei riguardi della figlia.
Ma la dialettica, compressa e ignorata dal lato sociale, poi sembra generare “mostri” familiari: questo, un possibile assunto dell’opera che però resta implicito, come un che di rimosso che l’autore non riesce a gestire compiutamente. Ecco perché, restando nell’ambito di una sintesi elementare, Roth non può raccontarci una Pastorale credibile, magari mitica, ma lo spettro desiderato di una pastorale il cui respiro si fa presto rantolo. Sempre che il lettore benpensante non voglia restringere il termine pastorale alla semplice "rimpatriata degli ex liceali" (per dirla all’italiana) dove si rivela un dramma eminentemente familiare che non avrà né rimpatriata né memorial day, ma si proporrà con batticuore e silenzio tombale.
Roth non è scrittore che giustifichi una simile banalizzazione. Il lessema “pastorale” visto in relazione con le dinamiche suscitate dai meandri e divagazioni narrative del testo, richiama un senso e una significazione ben più ampi, che sembrano guardare “oltre” il momento individualistico della vicenda centrale, per riferirsi a tratti costanti delle società umane fin dal loro sorgere. Pur descrivendo le notevoli particolarità spazio-temporali d’un grande paese, gli USA, sembra a me che l’autore voglia mirare al destino umano globale - alle difficili congiunture della convivenza e ai complicati rapporti con una natura depauperata e ferita dall’esosa polluzione di prodotti/merce – aguzzando l’occhio e l’onda di un’arte, quella narrativa, capace di farsi interprete di un’istanza collettiva, magari vaga, ma carica di nuovo possibile senso.
Forte del mio vagheggiamento sul presunto ecumenismo di Roth aggiungo un’altra ipotesi: che chiamare pastorale questo ambizioso intreccio narrativo fosse il segno di una petizione dell’autore al mondo: l’aver costruito un’opera così impegnativa, così densa e collegata al cuore, alla mente e alle viscere della cultura dell’Occidente, da entrare a buon diritto nell’Olimpo della narrativa classica mondiale, come un solenne affresco che vede protagonista la più grande potenza mondiale esistente.
Dunque l’attenzione del lettore accoglie con una certa impazienza lo sfondo incipitario, caotico e ostico: una sequela di passaggi sul gioco sportivo su cui sottilizza con tecnicismi da esperto, beandosi e insistendovi come un tifoso autentico, quale forse è stato da buon americano. Ma a mano a mano che dalla tela esce scontornata qualche figura, ecco l’espandersi ulteriore, quasi ossessivo, del più immediato milieu del protagonista, già baciato, lui così limpido, così alla mano, dalla gloria e dal successo: già una star con tutta la scia!
Procedendo nella lettura ci si addentra nel più perfetto labirinto costruttivo del romanzo contemporaneo: nessuna concessione alla cronologia univoca, intreccio variopinto delle divagazioni mnemoniche dei personaggi e dell’autore, minuziosa costruzione di sfondi necessari alla caratura psicologica dei personaggi, immissione di effetti di baldanzosa ridondanza unita a una misura discorsiva scorrevole ed elastica con tratti di efficace e vivace secchezza espressiva, onde scansare l’effetto marmoreo di alcuni tratti psicologici dei protagonisti. Aleggia però, tra una divagazione e un ritorno al cuore del racconto, la tentazione razionalistica, con una forte propensione alla tautologia: siamo divenuti ciò che siamo sempre stati fin dall’origine. Coloro che non possono esibire simili titoli sono ciarpame: “Non ti curar di lor, ma guarda e passa.” Tutto va bene nel romanzo, se si tiene al guinzaglio la tesi preconcetta, ma sotto traccia. E inoltre devi spiegare con sapienza rappresentativa e plausibile l’eccezione. Tutto sotto controllo, pare; la parola scorre.    
Eppure la messa in moto di una tale circolazione sanguigna non sempre sortisce l’atteso effetto. Perché? Perché manca il vero volano, quello dialettico, cioè la funzione dinamica giocata dall’elemento oppositivo, dotato di logica e necessità proprie, ma in commisurazione con l’altro. Invece tutto ciò che l’Autore involve per animare gli esordi e gli sviluppi della vicenda centrale resta nell’ambito notorio del clan studentesco. Anche le notazioni autocritiche dei personaggi sono icasticamente presenti come un’accentuazione del narcisismo familistico, in cui tutto si tiene.
Per fortuna, proprio in un contesto apparentemente così rassicurante, Roth, da vero maestro, inventa il più bel colpo di scena di tutto il libro: Seymour Levov è morto, comunica seccamente Jerry a Skip (affettuoso nomignolo di Roth nel romanzo). E quasi non hai tempo per prenderne atto ed essere consapevole che tutto ciò che Roth sta scrivendo sarà il grande monumento alla memoria, non tanto dei Levov e di sé, quanto di una classe imprenditoriale numinosamente personificata in Seymour, lo Svedese. Infatti lo Scrittore batte a più riprese sul tasto che se un mondo, creativo, volitivo, regolato, produttivo e persino virtuoso e candido, è esistito ed è forse ancora possibile, sono i Seymour, i Lou, le Dawn ad avere la palma come coraggiosi creatori di progresso, di benessere e resistenza.
Caratteri a parte – alcuni sgorbiati in pietra, quasi megalitici – sei sempre nel clan, sei in famiglia. Nonostante la freschezza dei bozzetti, malgrado l’effervescenza e l’arditezza dei dialoghi, avverti aria di chiuso. Senti che c’è un dietro che né il pensiero né la penna ha sfiorato o sfiorerà. C’è un qualcosa che hai calpestato senza conoscerlo, e tu, scrittore, non ti sei domandato da che cosa dipende l’inciampo a varcare quel chiuso.
Ecco un passo sintomatico di una fra le elusioni dissimulate nel pieno della narrazione: Jerry dice a Skip di Seymour: è il lavoro, la “sua attrazione fatale”. Il lavoro! Il lavoro che rende bruti e lascia povere intere popolazioni? Anche questo, il non significato, l’eluso. Il lavoro diventa su Seymour, sul padre Lou, su Dawn, su Jerry stesso in primo luogo, emblema, fregio luminoso. Ecco un’ingiustizia teoretica trasformarsi in dato meritorio. Roth è meritocratico, ma non spiega l’eziologia del presunto merito, se non restringendo lo sguardo alla sfera essenzialmente privata, élitaria, presso la quale ciò che invece merita specificazioni, il lavoro sociale alienato, mercificato e spesso imbarbarito, resta velato dietro una nobilitante vaghezza ed è sottilmente connesso con l’obiettivo personale raggiunto sopra altri: denaro, autostima, potere.
Ecco che i protagonisti di questa storia, malgrado aggressività, leggerezza e sostanziale cinismo, sono da sempre e per sempre “i salvati”. Dei “sommersi” Roth non ha minima contezza che si tratti di umani. L’umano illumina un tratto di qualche fedelissimo dipendente come prova provata della magnanimità padronale. Solo quando Meredhit (Merry) condivide l’orrenda esistenza dei vinti, dei sommersi, allora Roth suscita nella mente di Seymour la moltitudine dei senza volto come liquame, i cui miasmi minacciano di appestare i buoni come lui. Il negativo resta tale nell’origine e nell’esito.
Questa la tabe sulla resa artistica di Pastorale americana. Infatti l’insistente autoreferenzialità e la sostanziale chiusura ideologica e sociale dei protagonisti contrae la vicenda in dramma di dimensioni pressoché private. L’occhio dello scrittore continua a muoversi in prossimità dei protagonisti, senza indagare sulle diverse dinamiche sociali sulle quali avrebbe dovuto puntare l’occhio, magari asciutto, ma libero dalla glassa autoreferenziale e veritiero. Invece reso ipovedente dal proprio amore per l’ingenua aggressività originaria della classe di riferimento, lo scrittore non riesce a mettere a fuoco i nessi tra la storia dei Levov, simboli di un’intera classe di magnati molto rampanti, con gli operai statunitensi bianchi e neri e ancora meno, malgrado l’evocata dimensione transnazionale dei loro interessi, mettere in chiaro la connessione tra il citato gonfiore dei loro portafogli e i molti problemi del terzo e quarto mondo dove facevano affari, disinteressandosi o intervenendo aggressivamente sulle risorse e sulle vite di quelle popolazioni .
In sintesi, manca nel grande arazzo di Roth la coscienza dell’immane responsabilità da ascrivere alle classi di potere americano. Ne soffre assai il respiro ecumenico che il libro sembra in apparenza alitare. Nonostante ciò, con l’ambiguità del suo titolo e del suo racconto, pare continui a covare la ben nota autocandidatura imperiale e pastorale basata sulla superiorità attivistica e finanziaria dei magnati USA: arrogarsi dalla cima d’un Olimpo o Parnaso giornalistico e letterario, il compito di sancire, oltre la reale funzione egemonica già in atto, anche il primato dell’arte narrativa dal punto di vista metropolitano, nella sua funzione didascalica e storico mitologica; come per Roma antica l’Eneide. Dunque come fu Pax augustea a sanzione del dominio romano sul mondo antico, ora, e presumibilmente in futuro, pace ed egemonia yankee nel mondo globale.
Tutto bene, allora? Certo che no, perché quella stessa potente borghesia, rappresentata dai Levov del romanzo, vive soggettivamente sotto scacco nel romanzo stesso e oggettivamente nella realtà sensibile, senza rendersene conto e ragione. Lo strappo superficiale, il botto che interrompe una sorta di idillio familiare e familistico, lascia intravedere una ferita più profonda che riguarda un intero paese e non può essere addebitata a una semplice e non investigata delinquenza di massa. Sì, perché quando un romanziere di grande levatura e ambizione elabora un suo materiale mnestico e storico, finisce per significare più di quanto voglia il suo stesso desiderio e meno del suo ben pensare: tradimento della nostalgia e dell’affetto miope!
Lo scacco diventa dramma personale nel racconto, e non in seguito al fatto che l’uso dei guanti vada in obsolescenza, o perché i “criceti USA per guanti” sono stati estinti dalla formidabile macchina imprenditoriale e commerciale dei Levov qualunque. Ma in quanto la ricca classe imprenditoriale sembra generare il negativo come emergenza autoctona, subita come abnorme fatalità, derivante da un inspiegabile disagio personale che esorbita i limiti consentiti dal contesto rassicurante.
Invece il dramma, non avvertito né riconosciuto, viene da un fuori non considerato, perciò incontrollato e incontrollabile con gli strumenti del desiderio o dell’autostima di classe.
Il fatto reale trascurato dall’autore è che il giocattolo economico-politico del così detto sviluppo, del così detto progresso (non si sa bene per chi e per che cosa) è stato azionato “con altri mezzi” (Clausewitz). O meglio, partito con le dette buone intenzioni espansive, si è inceppato in una periferia, quella indocinese dove gli USA sono subentrati ai francesi, e sta procurando molti fastidi, dato che i nordvietnamiti non demordono di lottare per l’unità del loro paese e non sono interessati ai titoli di borsa, né si arrendono alla prepotenza ben armata.
Ma il bubbone è esploso qui, nella madrepatria, nella mitica Newark, metafora dell’intero paese, dove Seymour mantiene il punto circa la sua fabbrica; però tutto intorno è pressoché guerra civile. Hai voglia, caro grande scrittore, di guardare più vicino ai tuoi piedi o ai piedi di un Levov, di un nonno Lou che parlando con la nipote Merry sacramenta contro questo o quel politico, come se lui fosse vissuto su Marte o potesse, quanto un pidocchio nell’ascella del cane, fermare l’apparecchio impazzito, e Seymour fosse un qualunque giudice della sua contea che assista neutrale a una discussione astratta tra nonno e nipote balbuziente.
Merry fa parte del bubbone esploso; esploso vicino al cuore di mamma e papà. Merry sta a significare, per gli ottusi, che, poniamo, uno scontato movimento cominciato, che so?, a Newark, come un vento anodino di disagio e di sofferenze disconosciute o represse, raggiunge la parte opposta del globo, forma un occhio di richiamo per altrettanti disagi mortiferi e ritorna come tempesta che non vede muri, non valuta buone intenzioni e se ne infischia delle genealogie dei magnati, come delle vite faticose delle genti qualunque, dovunque. Roth sembra insensibile a questi collegamenti soprastanti o sottostanti alle dinamiche delle società umane. In questo senso è lecito parlare di fallimento della presa artistica del suo racconto, come del senso epifanico creduto veicolato dal termine “pastorale”.
Di esso l’Autore scrive brevemente alla p. 435, dopo uno stucchevole amarcord della trattativa di Dawn con Lou circa la spartizione dei rispettivi rituali religiosi (ebraico e cristiano) sull’eventuale figlio/a, che ora aveva già preso l’identità di Merry, bombarola e assassina. La pastorale americana consiste nel momento fugace della festa del Ringraziamento della durata di un giorno, allorché tutti mangiano lo stesso immenso tacchino, rendono volutamente omaggio all’istituzione suprema che si eleva incrollabile sopra ogni conflitto: il governo federale dell’Unione. Insomma si ripete, istituzionalizzata, un’epifania di pace limitata e puntiforme.
E qui ancora una volta è evidente la distopia visiva di Roth che si limita testardamente a considerare solo la discriminante religiosa tra ebrei e cristiani, come se tutta l’America del Nord non conoscesse altre specificità umane religiose o razziali, cozzando col fatto che almeno una macroscopica questione razziale c’era e c’è tuttora, quella con gli ex schiavi neri e quella non meno lacerante dei pochi nativi sopravvissuti alle stragi e confinati nelle riserve: cioè le classi o porzioni di classi che nel mondo contemporaneo si trovano oggettivamente contrapposte alla fame privatistica della borghesia imprenditoriale e finanziaria nella lotta per l’esistenza.

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