di Valeria Giovannini
(ap) Piccoli gesti quotidiani non hanno più il sapore di un tempo. Appartengono irrimediabilmente al passato, corrotti, privi di slancio. D’improvviso, ne subentrano altri, come per magia, a sorprenderci, stupirci. Possono giungere a cambiare il nostro cammino, oltre l’immaginazione.
Ho quarantanove anni, un marito, un figlio e un gatto. Per la verità, dire "ho" suona pretenzioso. Non ho proprio nulla, nemmeno i miei quarantanove anni. Di professione, restauratrice. Pavimenti antichi. Per il mio lavoro, mi affido al tatto. Con le mani tocco delicatamente la superficie dell'oggetto proposto. Resto a lungo in silenzio. E ascolto. Le vibrazioni tra le mie dita. La storia suggerita. È la parte più coinvolgente del mio lavoro. La più creativa. In quei momenti restauro. Con la mia immaginazione. E vivo le mie visioni. Eros, intermediario tra gli dei e i mortali, avvicina alla Bellezza. Alla realizzazione del Tutto. Attraverso le visioni. Suggerite dagli dei. Quando invece inizio a operare, mi sento semplicemente un'artigiana.
Nei giorni scorsi ho avuto un nuovo incarico. Un'antica villa in corso di ristrutturazione. Un salone, un meraviglioso pavimento a mosaico con una parte mancante. Toni rosso e blu. Quando le porte del salone si sono spalancate avanti a me, sono rimasta senza respiro.
Il pavimento è ben conservato. Ma va completato. Ho sfiorato le tessere, poco alla volta. Ho immaginato che in quel salone ci fosse un pianoforte. Nero, a coda. Un'anziana donna, dall'aspetto elegante e austero parlava di arte a un giovane uomo. Nutriva la sua anima. Con l'arte. E con la musica. Grazie a Dio, il mio lavoro mi consente di stare a contatto con la bellezza. Con la sensazione di estasi e di completezza che porta la creatività. Con la percezione di essere viva. Viva e basta. Fuori dalla storia, dal tempo e dai luoghi. Esisto. Mi sento ebbra di vita.
Le immagini scorrono nella mia testa, lì, a contatto con il mio pavimento. Ecco, la parte migliore del mio lavoro. Lasciarle correre, a briglia sciolta. La mia linfa. La mia ghianda. E cogliere la vita a piene mani. Voglio scoprire il pezzo mancante al mio pavimento. Penso che dietro ogni accadimento, si cela un simbolo. O tanti simboli. E il mio compito è quello di scavare, al pari di un archeologo, per portare alla luce ciò che è in ombra. Nella terra.
Racconto a Fabrizio dell'impegno che mi aspetta. E di ciò che ho provato a contatto con il pavimento. Sorride beffardo. Dal giorno del nostro matrimonio. Tutto ciò che non è pragmatico, lo fa sorridere. "Certo che sei strana...". Ma in fondo sono il suo completamento. Intessuto di fantasia e di sogno.
Tania. La desidera. Lo percepisco. Il linguaggio del corpo. È allegra. È fresca. Non è una femme fatale. Ha i capelli color del miele. Sorride. Sorride e basta. Un gesto della bocca. Non viene dal profondo. Li vedo uscire insieme da un bar. Piove. Lei è abbarbicata a lui, sotto l'ombrello. Non so se mi hanno veduta. Fuggo via, devastata dalla rabbia. Il caldo nella testa. E una morsa nello stomaco. Salgo in auto e prendo la strada di casa. Nietzsche gioca sul tappeto con una ghianda. La tiene tra gli artigli e poi la fa rotolare. Per riprenderla un istante dopo. Si stanca in fretta. E si strofina contro le mie gambe. Ho voglia di piangere.
L'indomani torno alla villa. Da sola. Siedo sul pavimento, con le gambe incrociate. Chiudo gli occhi. Inseguo la mia visione.
L'anziana signora, elegante in un lungo vestito blu di velluto, polsini e colletto neri, una grossa una spilla al centro, siede al pianoforte. Parla piano al giovane. I suoi gesti sono delicati. Inizia a suonare Chopin. Si trasforma. Diventa una donna appassionata e vibrante. Il giovane l'ascolta rapito. Sconvolto dal crescendo delle note. Nella atemporalità infinita.
La musica mi scuote nel profondo. Le lacrime solcano lievi il mio viso. Sento dei passi. Imbarazzata, passo le dita sotto le ciglia. Il dott. Paolo Gatti, esperto della sovrintendenza ai beni culturali. Ci avevano presentati la scorsa volta alla villa. Avevamo scambiato poche parole. Si siede accanto a me. Guardiamo il pavimento. I nostro sguardi non sono diretti. Percepisce la mia emozione. Ma non dice nulla. Parliamo del più e del meno, ma le nostre anime comunicano a un livello superiore. Avremo aspetti da definire nei prossimi giorni. Il tono della sua voce è molto basso. Parla e mi sento vibrare. Il Notturno di Chopin nelle orecchie. Eleonora. Pronuncia il mio nome, intercalando nei discorsi. E avverto un brivido. Vorrei sentirmi avvolta dalle sue braccia. Oddio, no. Fermati, Eleonora. Non ho più quindici anni da un pezzo. Amo mio marito. Nonostante Tania. Riprendo la mia parte razionale. Sono una donna matura. Tengo famiglia.
Riparto verso casa. L'autostrada è deserta. E affollata da mille sensazioni. Parcheggio la macchina nel vialetto di casa. La luna è immensa, stasera. Entro. Francesco, chiuso nel suo silenzio come ogni adolescente che si rispetti, è sdraiato sul divano con lo smartphone in mano. Un susseguirsi di trilli. Emette un grugnito che voleva essere un saluto. "Ciao amore, me lo dai un bacio?" "Dai, mamma, lasciami in pace". Vibra il cellulare. Fabrizio farà tardi, deve lavorare. Nietzsche si siede sulle mie gambe. L'unico maschio di casa che mi degna di attenzione costante, fedele come un gatto. Non ho voglia di cenare. Francesco sbocconcella una pizza scongelata sul divano, tra un messaggio e l'altro.
Vibra di nuovo il cellulare. Sarà Fabrizio che tarda ancora. Invece no. "Credo di aver interrotto qualcosa stamattina." "Non ti preoccupare. I guastatori sono talvolta salvifici". "Mhm, interessante. Quando un guastatore è salvifico?" "Quando ci salva da noi stessi". Mi sento lusingata dalle attenzioni di Paolo Gatti. Ma non ho voglia di iniziare una patetica conversazione sui perché della mia vita. Cambio discorso. "Che fai?" "Recepito. Faccio quattro passi con Sabina". Mi chiedo chi sia, la moglie, la figlia, un'amica... Poco dopo mi compare la foto di uno stupendo pastore belga sul cellulare..."Ecco Sabina" "Come Sabina Spielrein, la donna a cui Jung aveva affidato la sua anima affinché la custodisse" "Già, gli animali, custodi di aspetti significativi di noi stessi".
Sento infilare la chiave nella serratura. Arriva Fabrizio. Mi chiedo se si sarà davvero fermato al lavoro. Lo guardo. Cerco di vedere se c'è Tania. Sul suo volto. Nella sua testa. Un ciao frettoloso. Come capita da tempo. Vorrei chiedere dove ha pranzato. Con chi. Ma lascio perdere. Sento lo scroscio dell'acqua. La doccia. Avvolto nell'accappatoio, si sdraia sul letto con un libro in mano. Mi avvicino a lui. Si scosta. Sono stanco. È sempre stanco, ultimamente. E io mi sento ferita. Una donna matura e ferita. Mi giro dall'altra parte. Fingo di leggere, indifferente. Ma vorrei gridare.
"Che fine hai fatto?" Già, Paolo Gatti. Non gli ho più risposto. "È arrivato mio marito".
I giorni seguenti, di nuovo alla villa. Da mattina fino a sera tardi. Con lo staff. E Paolo Gatti. Si studiano i materiali, si discute. Disegno. Mi volto all'improvviso e colgo il suo sguardo su di me. Eppure sono una donna di quasi cinquant'anni. Una donna che non fa nulla di artefatto per dimostrarne di meno. Questa sono io, signori. Con le mie rughe. E i miei fili grigi e candidi nei capelli. Una sera, la mia auto non parte. Morta. Siamo rimasti soltanto io e Paolo Gatti. Salgo sulla sua jeep. L'autostrada. Ci fermiamo in un autogrill. "La ragazza bionda mescolava birra chiara e Seven up". La canzone di Guccini. Tania. Un'apparizione fugace, nella mia mente. Comperiamo birra e patatine. Il binomio perfetto da autogrill. E torniamo sulla jeep. A bere birra e a mangiare patatine. E parliamo, parliamo. Parliamo come due amici di vecchia data. Due maschi che parlano di donne. E di uomini. E ridiamo ancora di più. Mi sento leggera su quella jeep. Tutto è lontano anni luce. Fabrizio. Tania. Francesco. Ci sono solo io. E Paolo Gatti. Ripartiamo. Arriviamo nel vialetto. Ci accordiamo per tornare domani alla villa. Con i cavi per la batteria della macchina. Scendo veloce dalla jeep. Arrivo a casa. I miei due uomini stanno guardando la TV. È molto tardi. Mi guardano come se fossi un fantasma. Rido e continuo a sentirmi leggera. Allora spiego della macchina morta. Di Paolo Gatti. E penso a quanto mi sento viva.
Mi arriva un sms. "Dammi un go, no go per il lancio. Vettore." Paolo mi aspetta nel vialetto. Vuole darsi un tono. Rendersi interessante. Ma mi fa ridere. Io riesco a vedere la sua anima, come forse nemmeno lui è in grado di fare. Fabrizio scosta la tenda della finestra. Salgo sulla jeep. E rido. E getto uno sguardo alla finestra. E via, di nuovo l'autostrada, la villa. Lavoro fino a sera, quasi ininterrottamente. C'è una piccola osteria poco distante, Paolo mi propone di cenare lì. Un posto semplice e caldo. Prendiamo un tavolo in un angolo. Lontano da tutto. Paolo prende le mie mani tra le sue. "Oggi guardavo le tue dita sfiorare le tessere del pavimento. Così affusolate e nervose". Sento passare una scarica da diecimila volt. Vorrei che le stringesse per sempre. "Mi piace parlare con te. Mi piace ridere con te. Mi piace quando mi prendi le mani così. Ma la cosa si fa pericolosa." "Quale cosa?" provoca malizioso. "Questa attrazione forte tra noi". Non si aspettava, forse, tanta schiettezza. Ma alla mia età, trovo corretto chiamare le cose con il loro nome. Arrivano due piatti fumanti di zuppa alla zucca e castagne. Dopo cena, si riparte, ognuno sulla sua auto.
"Ele". Una piccola parola illumina il display. Mi riscalda il cuore. "Sono belle le tue mani." "Buona notte". Spengo il cellulare.
Fabrizio mi sta aspettando. "Noi due dobbiamo parlare." Non so bene cosa pensare. "Cosa sta succedendo? Cosa vuole quello con la jeep?" "È una persona con cui collaboro per lavoro. E che mi fa sentire bene. Tutto qua. " "Sono geloso" "Ma dai, non ci credo, la gelosa sono sempre stata io" "Infatti non è vero che sono geloso" "Senti, con Paolo ci lavoro, ci parlo e ci rido, ma finisce qui" "Ma tu ami?" "Se non ti amassi, non sarei qui, adesso" Vedo davanti a me l'immagine di lui fuori dal bar. Abbracciato a Tania. La rabbia sale incontenibile. Sparo. "E Tania, che cosa vuole? O forse dovrei dire, che cosa vuoi tu da lei? Vorresti andarci a letto, vero?" Il beneficio del dubbio. Preferisco il condizionale al passato prossimo. Mi accorgo che sto gridando. "Sei impazzita?" Pianto liberatorio. E parliamo, per tutta la notte. Di quando i nostri corpi si cercavano senza tregua. E di quanto ci siamo allontanati. Senza un motivo. Dei momenti di crisi passati. Di certi, non me ne ero accorta. O li ho semplicemente ignorati. Quando è nato Francesco. Troppo assorbita da lui. Dall'amore infinito per la mia creatura. Il legame con mio figlio è diventato ogni giorno più forte. E lui escludeva suo padre da noi. Con l'adolescenza, tutto è cambiato. Devo tenermi a distanza. Siamo diventati due, gli esclusi. Non ho mai smesso di amare Fabrizio. Nemmeno quando mi sono sentita trasparente. Paolo Gatti mi piace. Anzi non mi piace. Ma mi piace l'attrazione tra noi. Sensazioni risorte da sotto la cenere. Un gioco. Ci avvolge. Ma non ci travolge. Ne sono certa. Come con Tania.
Nietzsche ascolta imperturbabile ogni nostra parola. Francesco è uscito. Passerà il week end in montagna con gli amici. La casa è tutta nostra. La notte pure. Mi emoziono quando ci abbracciamo. Come il giovane che ascolta Chopin. Rapito dalle note dell'anziana signora. Appassionata nelle espressioni. E determinata nel suo rigore. Libera di far volare le mani sui tasti. E consapevole della necessità di seguire l'ordine delle note. Apollineo e dionisiaco. Dionisiaco e apollineo.
"Mi sei mancato, amore mio".
Chiudo gli occhi. L'anziana signora sussurra al giovane un passo del Simposio di Platone:
"Ecco perché, mio caro Fedro, posso dire che l'Eros è pieno di bellezza e bontà al più alto grado ed è quindi, per tutti gli esseri, la fonte di più alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: Eros è il dio che dà "la pace agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore".
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