Un commento a Barbone, come tra foglie d’autunno (P.
Brondi, PL, 4/12/15)
Chi è il barbone
tra foglie d'autunno, protagonista dell'omonimo racconto di Paolo Brondi
che, immerso nel chiuso dell'io, serrato nel suo guscio, impenetrabile come una
monade, all'improvviso si apre ad un soliloquio che, solo nell' incontro
casuale con l'altro da sé, si trasforma in colloquio, esce dal suo tempo
assoluto e si misura col tempo dell’altro?
È solo la voce dell’autore, o forse è la voce profonda dell’Essere, eternamente sballottato dall'urto del caso, sempre in bilico tra attesa e rinuncia, tra speranza e disinganno? Forse è “la voce forte e chiara della Natura che, nell' alterno processo delle sue metamorfosi, ci richiama come foglie d'autunno ognuno alle radici del proprio albero che, incurante, continua il suo ciclo vitale?" “Così l’universo si rinnova senza posa e le creature mortali vivono scambievolmente".
È solo la voce dell’autore, o forse è la voce profonda dell’Essere, eternamente sballottato dall'urto del caso, sempre in bilico tra attesa e rinuncia, tra speranza e disinganno? Forse è “la voce forte e chiara della Natura che, nell' alterno processo delle sue metamorfosi, ci richiama come foglie d'autunno ognuno alle radici del proprio albero che, incurante, continua il suo ciclo vitale?" “Così l’universo si rinnova senza posa e le creature mortali vivono scambievolmente".
Questo scrive Lucrezio (De rerum natura) ed in effetti è proprio nel rapporto
scambievole, ovvero quando l'Io incontra il tu e diventa noi (come nel fortuito
incontro dei due protagonisti del racconto di Paolo Brondi, il barbone-filosofo
e Giorgio l’affermato professionista) che la vita non si limita ad un semplice
fluire, ma si realizza in un fiorire di forme. Del resto già Aristotele
affermava che ogni vita può dirsi riuscita solo se realizza la propria forma.
Questa sembra essere anche l’aspirazione del nostro barbone-filosofo quando
dichiara “solo tuffandoci nel mare sterminato dell'avventura umana si può
cogliere nel fondo il fluttuare di mille destini ed intesserne poi i disegni
nella propria immensa tela". Queste sono parole di verità e tali risuonano
anche a Giorgio, interlocutore perplesso e smarrito che, per la prima volta, prende
coscienza di vivere in un labirinto di cui è costretto ad attraversare i
meandri, per ritrovare un’immagine di sé più autentica, veritiera, ovvero
"ingenua".
Ma come uscire dal labirinto? Solo mettendoci in cammino
come viandanti per scoprire nuovi sentieri e nuove verità, consapevoli, passo
dopo passo, che ciò che conta non è la meta, ma il viaggio. Ma perché il
viaggio si risolva in una palingenesi, in un’autentica resurrezione, non
deve tendere ad occidente, ma piuttosto ad oriente, là dove possiamo ritrovare
la luce del mattino. Rivolgere il viaggio ad est significa fugare le
tenebre della notte, ritrovare la luce aurorale della coscienza. Tornare
alla sorgente significa seguire "la voce del destino che invoca là dove
ogni tempo è sconvolto". E se il tempo di Giorgio, fino a questo
momento, è proteso verso l’idea del progresso, quello del nostro
barbone-filosofo tende piuttosto verso un tempo cosmico in cui, come ci
insegna Nietzsche, passato e futuro si risolvono nel presente eterno, il solo
capace di dare al passato il carattere di possibili aperture proprie del futuro
ed al futuro l'immobilità del passato. Nell'eterno ritorno il tempo perde la
sua univoca direzione, ma a volte, come ci indica anche il nostro
barbone-filosofo, basta un soffio di vento a mutare le condizioni
delle foglie di autunno. Proprio per questo occorre dare una misura
alle molteplici potenze che ci agitano e, sempre come suggerisce Nietzsche, occorre
dare loro una direzione.
Ad indicare la direzione a Giorgio, in questo
caso, è proprio il nostro barbone- filosofo che, non avendo più
nome,"è solo un individuo gettato nel mondo e trascinato in un ritmo
frammentato ed irredento del qui e dell’ora da cui si sta liberando".
Fratello del più famoso Vitangelo Moscardi, protagonista del romanzo di L.
Pirandello "Uno nessuno centomila", solo nell'attimo in cui si apre
all'altro si riconosce come vita purissima ed "assoluta", ovvero
sciolta da qualsiasi altro legame, svincolata per sempre persino dal proprio
nome."Non ho più nome. Il nome conviene ai morti. A chi ha concluso. Io
sono vita e non concludo. La vita non concluse e non sa di nomi la vita...Sono
quest'albero, nuvola...vagabondo... muoio ogni attimo, io, e rinasco vivo e
senza ricordi: vivo e intero, non più in me ma in ogni cosa fuori". E
questa, caro barbone-filosofo è "la favola bella che ieri ci illuse, oggi
ci illude, “illude anche te e continuerà ancora ad illuderci "finché
il sole brillerà sulle sciagure umane".
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