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venerdì 9 settembre 2016

Tra le foglie, sull'acqua

Racconto di Gianantonio Tassinari
(Non solo malinconia, quando le stagioni appaiono tristi)

Era d’autunno. Dopo una notte di pioggia. Uno di quei giorni grigi, senza squarci d’azzurro. Camminavo silenzioso, pensieroso, lungo un viale senza fine costeggiato di platani malinconici, perché oramai spogli. Forse, senza rendermene conto, stavo percorrendo l’autunno della mia vita.
Il silenzio era interrotto, di tanto in tanto, dal rumore delle foglie secche che si rompevano mentre calpestavo senza pietà quel tappeto giallo e ruggine. Calpestavo un’infinità di sogni, un tempo speranze cresciute al sole di primavera, ma ora del tutto crollate. Sogni a volte realizzati sotto il sole bruciante delle passioni, nell’estate calda della vita.
Ora guardavo all’intorno quasi per forza: non scorgevo più sogni da realizzare. La luce intensa dell’estate era da tempo scomparsa, non scaldava più il cuore. Sentivo che non mi rimaneva altro da fare che percorrere quel viale, pestando sempre quelle foglie staccate dalla vita.
Per quanto disperatamente cercassi un segno della stagione passata, anche una piccola, flebile traccia del tempo di prima, non lo trovavo. Forse avrei voluto scorgere qua e là, magari per caso, un raggio di sole, un fiore colorato, un dolce germoglio di verde delicato. Ma non ci riuscivo. Non ne ero capace. Forse non era proprio possibile. Mi sentivo come svuotato di fronte al lento, inesorabile avvicendarsi delle stagioni che scandivano i momenti dell’essere, del vivere.
La stagione triste aveva coperto col suo manto uniforme tutta la natura. I platani spogli di quel viale erano muri alti, invalicabili, che quasi non lasciavano intravedere dietro di sé il mondo indifferente o addormentato. Potevo solo guardare avanti, ma fin dove? E così sentivo di proseguire lungo il mio destino ineluttabile, con lo sguardo per terra, lungo quel colore giallo e ruggine. Non mi accorgevo nemmeno che la superficie di quel tappeto battuto dal vento lasciava partire di tanto in tanto qualche foglia secca per un breve volo. Non la osservavo nemmeno ricadere stanca e triste sul suo letto d’asfalto. Gli occhi percepivano al massimo un monotono grigiore diffuso, interrotto solo dalla forma bizzarra di qualche nuvola gravida di pioggia. Allora mi ostinavo a cercare tra le foglie, sempre con lo sguardo fisso a terra, qualcosa che desideravo con impazienza trovare. Quello che non c’era tutt’attorno poteva essermi nascosto sotto quella distesa malinconica. Era come se cercassi una piccola scintilla viva tra un mare di cenere. Mi sarebbe bastato anche solo il sapore del fuoco per convincermi che c’era ancora un po’ di vita in mezzo al silenzioso fruscio della natura assopita. Ma più mi affannavo, quasi con disperazione, a voler scorgere quel minimo segno e più avevo la cupa consapevolezza del nulla che continuava inesorabile.
Fu allora che vidi una ramazza strisciare a terra e aprirsi un varco proprio nella mia direzione. Dietro il lungo manico c’era un vecchio spazzino, con un viso rugoso che raccontava tanti anni vissuti strisciando la ramazza. Aveva un grande e pesante cappotto grigio, malinconico come quel giorno, sdrucito, tutto consunto da chissà quanti giorni passati su e giù per la città a pulire sempre le stesse strade. Per un attimo incrociai il suo sguardo e lui il mio. Il vecchio mi guardò fugace, senza interesse, senza emozioni, quasi distrattamente. Non disse nulla. Gli chiesi dove portasse quel viale, quasi non lo ricordassi. Ma fu per spezzare la monotonia del tempo e del luogo. – Al parco delle rimembranze, disse quella voca neutra mentre il suo sguardo si posò ancora una volta su di me per un battito di ciglia. Finsi interesse: - È bello il parco? – Non so, replicò lo spazzino – c’è solo gente seduta sulle panchine fredde, tra gli alberi spogli, concluse con una voce roca e piatta, incapace di tradire qualsiasi stato d’animo. – Ma nel parco ci sarà pure qualche sempreverde? Lo incalzai per paura che la fiammella di quel contatto umano si spegnesse. – Non so, io vedo solo alberi spogli e foglie cadute che mi aspettano, concluse il mio interlocutore con una clama sconcertante e un tono che parve non ammettere repliche. La sua voce perentoria suonò come una sentenza inappellabile.
Quasi raggelato dalle parole che avevo sentito, continuai a camminare con la ineluttabile certezza che dovevo proseguire fino in fondo. Pensavo che sarei finito in un luogo come quello che stavo attraversando. Anzi, forse, in uno peggiore, nel quale sarei rimasto, forse, preda del passato, schiavo dei ricordi, per poi cominciare a impazzire…
In quell’attimo una palla rimbalzò dietro di me, mi superò ballonzolando e andò a fermarsi tra le foglie ai piedi di un albero, con un tonfo sordo. Era caduta in una pozzanghera. Udii un bambino gridare: - La palla! La palla! Allora corsi d’istinto a raccoglierla e mi chinai sulla pozzanghera. Sollevai la palla stringendola bene, quasi avessi paura che scappasse. Mentre feci per alzarmi, mi parve di avvertire una certa luminosità che, pur tenue tenue, si stesse diffondendo. Sulle prime non feci troppa attenzione alla novità. I miei pensieri erano ora assorbiti da quella voce infantile che gridava e dalla palla che stringevo. Ma poi gettai lo sguardo sulla pozzanghera. Tra le foglie accartocciate sull’acqua, come in uno specchio, mi apparve uno squarcio di azzurro nel cielo. – Me la dai? Chiese il bambino. Udivo parlare ma non capivo. La mente era affollata da un turbine di pensieri e non potevo capire nulla. Stavo con lo sguardo fisso sull’azzurro della pozzanghera, incredulo. In quel momento anche le nubi che offuscavano il pensiero si diradarono e compresi che cosa stavo aspettando. Ebbi la sensazione nitida di avere raggiunto qualcosa che, anche se indefinito, stavo tuttavia agognando nel profondo. Qualcosa di cui avevo la convinzione che non sarebbe mai accaduto.
Mi voltai indietro, verso il bambino, e senza ancora capire ciò che lui continuava a ripetere gli porsi meccanicamente la palla. Il bambino mi guardò intensamente, poi spalancò gli occhi e il suo sorriso mi illuminò. Mi scossi di dosso i pensieri e gli chiesi: - Andiamo a giocare?    

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