Racconto di Gianantonio Tassinari
(Non solo malinconia, quando le stagioni appaiono tristi)
Era d’autunno. Dopo
una notte di pioggia. Uno di quei giorni grigi, senza squarci d’azzurro.
Camminavo silenzioso, pensieroso, lungo un viale senza fine costeggiato di
platani malinconici, perché oramai spogli. Forse, senza rendermene conto, stavo
percorrendo l’autunno della mia vita.
Il silenzio era interrotto, di tanto in tanto, dal rumore delle foglie secche che si rompevano mentre calpestavo senza pietà quel tappeto giallo e ruggine. Calpestavo un’infinità di sogni, un tempo speranze cresciute al sole di primavera, ma ora del tutto crollate. Sogni a volte realizzati sotto il sole bruciante delle passioni, nell’estate calda della vita.
Il silenzio era interrotto, di tanto in tanto, dal rumore delle foglie secche che si rompevano mentre calpestavo senza pietà quel tappeto giallo e ruggine. Calpestavo un’infinità di sogni, un tempo speranze cresciute al sole di primavera, ma ora del tutto crollate. Sogni a volte realizzati sotto il sole bruciante delle passioni, nell’estate calda della vita.
Ora guardavo
all’intorno quasi per forza: non scorgevo più sogni da realizzare. La luce
intensa dell’estate era da tempo scomparsa, non scaldava più il cuore. Sentivo
che non mi rimaneva altro da fare che percorrere quel viale, pestando sempre
quelle foglie staccate dalla vita.
Per quanto
disperatamente cercassi un segno della stagione passata, anche una piccola,
flebile traccia del tempo di prima, non lo trovavo. Forse avrei voluto scorgere
qua e là, magari per caso, un raggio di sole, un fiore colorato, un dolce
germoglio di verde delicato. Ma non ci riuscivo. Non ne ero capace. Forse non
era proprio possibile. Mi sentivo come svuotato di fronte al lento, inesorabile
avvicendarsi delle stagioni che scandivano i momenti dell’essere, del vivere.
La stagione triste
aveva coperto col suo manto uniforme tutta la natura. I platani spogli di quel
viale erano muri alti, invalicabili, che quasi non lasciavano intravedere dietro
di sé il mondo indifferente o addormentato. Potevo solo guardare avanti, ma fin
dove? E così sentivo di proseguire lungo il mio destino ineluttabile, con lo
sguardo per terra, lungo quel colore giallo e ruggine. Non mi accorgevo nemmeno
che la superficie di quel tappeto battuto dal vento lasciava partire di tanto
in tanto qualche foglia secca per un breve volo. Non la osservavo nemmeno
ricadere stanca e triste sul suo letto d’asfalto. Gli occhi percepivano al
massimo un monotono grigiore diffuso, interrotto solo dalla forma bizzarra di
qualche nuvola gravida di pioggia. Allora mi ostinavo a cercare tra le foglie,
sempre con lo sguardo fisso a terra, qualcosa che desideravo con impazienza
trovare. Quello che non c’era tutt’attorno poteva essermi nascosto sotto quella
distesa malinconica. Era come se cercassi una piccola scintilla viva tra un
mare di cenere. Mi sarebbe bastato anche solo il sapore del fuoco per convincermi
che c’era ancora un po’ di vita in mezzo al silenzioso fruscio della natura
assopita. Ma più mi affannavo, quasi con disperazione, a voler scorgere quel
minimo segno e più avevo la cupa consapevolezza del nulla che continuava
inesorabile.
Fu allora che vidi
una ramazza strisciare a terra e aprirsi un varco proprio nella mia direzione.
Dietro il lungo manico c’era un vecchio spazzino, con un viso rugoso che
raccontava tanti anni vissuti strisciando la ramazza. Aveva un grande e pesante
cappotto grigio, malinconico come quel giorno, sdrucito, tutto consunto da
chissà quanti giorni passati su e giù per la città a pulire sempre le stesse
strade. Per un attimo incrociai il suo sguardo e lui il mio. Il vecchio mi
guardò fugace, senza interesse, senza emozioni, quasi distrattamente. Non disse
nulla. Gli chiesi dove portasse quel viale, quasi non lo ricordassi. Ma fu per
spezzare la monotonia del tempo e del luogo. – Al parco delle rimembranze,
disse quella voca neutra mentre il suo sguardo si posò ancora una volta su di
me per un battito di ciglia. Finsi interesse: - È bello il parco? – Non so,
replicò lo spazzino – c’è solo gente seduta sulle panchine fredde, tra gli
alberi spogli, concluse con una voce roca e piatta, incapace di tradire
qualsiasi stato d’animo. – Ma nel parco ci sarà pure qualche sempreverde? Lo
incalzai per paura che la fiammella di quel contatto umano si spegnesse. – Non
so, io vedo solo alberi spogli e foglie cadute che mi aspettano, concluse il
mio interlocutore con una clama sconcertante e un tono che parve non ammettere
repliche. La sua voce perentoria suonò come una sentenza inappellabile.
Quasi raggelato
dalle parole che avevo sentito, continuai a camminare con la ineluttabile
certezza che dovevo proseguire fino in fondo. Pensavo che sarei finito in un
luogo come quello che stavo attraversando. Anzi, forse, in uno peggiore, nel
quale sarei rimasto, forse, preda del passato, schiavo dei ricordi, per poi
cominciare a impazzire…
In quell’attimo una
palla rimbalzò dietro di me, mi superò ballonzolando e andò a fermarsi tra le
foglie ai piedi di un albero, con un tonfo sordo. Era caduta in una
pozzanghera. Udii un bambino gridare: - La palla! La palla! Allora corsi
d’istinto a raccoglierla e mi chinai sulla pozzanghera. Sollevai la palla
stringendola bene, quasi avessi paura che scappasse. Mentre feci per alzarmi,
mi parve di avvertire una certa luminosità che, pur tenue tenue, si stesse
diffondendo. Sulle prime non feci troppa attenzione alla novità. I miei
pensieri erano ora assorbiti da quella voce infantile che gridava e dalla palla
che stringevo. Ma poi gettai lo sguardo sulla pozzanghera. Tra le foglie
accartocciate sull’acqua, come in uno specchio, mi apparve uno squarcio di
azzurro nel cielo. – Me la dai? Chiese il bambino. Udivo parlare ma non capivo.
La mente era affollata da un turbine di pensieri e non potevo capire nulla. Stavo
con lo sguardo fisso sull’azzurro della pozzanghera, incredulo. In quel momento
anche le nubi che offuscavano il pensiero si diradarono e compresi che cosa
stavo aspettando. Ebbi la sensazione nitida di avere raggiunto qualcosa che,
anche se indefinito, stavo tuttavia agognando nel profondo. Qualcosa di cui
avevo la convinzione che non sarebbe mai accaduto.
Mi voltai indietro,
verso il bambino, e senza ancora capire ciò che lui continuava a ripetere gli
porsi meccanicamente la palla. Il bambino mi guardò intensamente, poi spalancò
gli occhi e il suo sorriso mi illuminò. Mi scossi di dosso i pensieri e gli
chiesi: - Andiamo a giocare?
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