Prevenzione e interventi per
contrastare la diffusione della violenza nelle relazioni affettive. Una riflessione in occasione della
giornata nazionale della mediazione familiare del 19 ottobre
(ap) Si ampliano in Italia
e in Europa gli interventi che tendono a favorire sul territorio percorsi di
mediazione familiare nella gestione dei conflitti in ambito relazionale/affettivo,
utilizzando conoscenze specifiche della psicologia, sociologia, pedagogia, anche del
diritto.
In Italia la prossima
legge di bilancio prevede lo stanziamento di 5 milioni annui nel triennio
2017-2018 a sostegno dei corsi e delle
strutture regionali e locali di mediazione familiare. L’Europa ha promulgato un
bando di 2,5 milioni di euro a favore di associazioni che lottano contro la
violenza di genere. Intanto si celebra il 19 ottobre la giornata nazionale
della mediazione familiare.
L’impegno in questo
settore migliorerà la situazione? Contribuirà alla fine a ridurre numericamente
le aggressioni contro le donne, gli stupri, i gesti efferati di omicidio
commessi di partner rifiutati?
Intanto, quali spazi di
contiguità vi sono tra il campo della mediazione familiare e la giustizia
penale? Può essere utile una riflessione, aperta a professionalità diverse, per
la ricerca di territori comuni, in tema di prevenzione e di intervento diretto.
A prima vista, gli
orizzonti appaiono molto lontani. La mediazione familiare mira a prevenire i
conflitti o a regolarli in modo imparziale, senza giudizi di merito: è tendenzialmente
alternativa al diritto. La giustizia penale interviene invece solo dopo
l’insorgenza del conflitto e ha come suo scopo finale proprio la decisione, il
giudizio sul fatto già avvenuto. Non vi è mediazione possibile tra il carnefice
e la vittima.
Ma è soprattutto la natura
del conflitto a distinguere gli operatori dell’uno e dell’altro campo. Solo nel
diritto penale il conflitto si presenta nella sua forma più degenerata ed
estrema, il superamento dell’ultimo limite, la commissione del crimine.
Eppure l’esperienza indica
che la realtà dalla quale tutto ha inizio è la medesima: il rapporto tra
persone in cui è presente un legame di tipo affettivo e/o sessuale. Può essere
nell’ambito della famiglia, quando esiste un vincolo giuridico o di fatto; oppure
in situazioni relazionali più elastiche e indefinite (a scuola, nello sport, durante
il lavoro) e in cui comunque il confronto di genere è presente e determinante. Qui
le forme violente possono risultare di tipo seriale (come nei maltrattamenti in
famiglia e negli atti persecutori, lo stalking) oppure concretizzarsi in
condotte “singolari” (la violenza sessuale, l’omicidio).
Le statistiche mostrano
che in queste situazioni le vittime sono prevalentemente donne e che la maggior
parte dei casi di violenza si verifica nell’ambito
familiare/affettivo/relazionale. Quando sono oggetto di attenzione nelle
indagini sociologiche o nell’inchiesta penale, queste situazioni presentano
caratteri costanti e analoghi: emerge soprattutto la fragilità e la solitudine
della vittima, l’arroganza incontrollata dell’aggressore.
Ebbene sono questi gli
aspetti che rendono possibile la degenerazione delle relazioni e che insieme
allontanano nel tempo e spesso pregiudicano gli interventi utili, a cominciare
da quelli delle istituzioni e delle autorità. La vittima non denuncia
tempestivamente il crimine anche
mascherando la verità dei fatti (“sono caduta dalle scale”), si illude di
modificare la situazione con il partner (“cambierà, mi ha promesso che lo farà),
non riesce soprattutto a “leggere” con equilibrio e razionalità i fatti che
accadono (“lo amo sempre”).
Una
condizione sociale che oggi è aggravata, in certi ambiti di origine
extracomunitaria, dal pregiudizio religioso, dall’arretratezza dei costumi, dai
divieti di una cultura che non ha fatto i conti con la critica razionale, e non
ha compiuto una approfondita riflessione sulla “parola ispirata” generando
ulteriori conflitti (dal velo in testa, al divieto di mostrare il corpo, alle
imposizioni di costume nei rapporti fra i sessi e verso l’autorità maschile).
D’altra parte un’arcaica
concezione propria di certa cultura maschilista anche occidentale identifica in
modo perverso l’amore con il possesso. E’ un desiderio senza limiti, privo di
controllo, esigente nel suo soddisfacimento immediato, che porta a forzare
qualsiasi confine che venga prospettato dall’interlocutore, o sia imposto dalla
società tutta. Non c’è rispetto per le decisioni dell’altro, per la sua
autonomia, per la libertà della persona e per le sue scelte. Un atteggiamento
che a sua volta genera, nel suo autore, la schiavitù dei comportamenti, una
coazione a ripetere l’illecito.
Problemi di crescita
personale, disfunzionalità relazionali, dipendenze lavorative (“ero minacciata
d’essere licenziata”) o sentimentali della donna (“mi diceva ti amo, e mi
sentivo bella”), rapporti di potere maschio-femmina, marginalità culturale,
mancanza di supporto sia intellettuale che emozionale: sono i fattori che poi
espongono la vittima ad un percorso lacerante e difficile anche nel processo
penale; spesso non regge allo stress, all’aggressività della controparte, alle
insidie della memoria stessa. È pregiudicata la credibilità personale mentre la
efficacia testimoniale nella ricostruzione dei fatti si mostra lacunosa.
La donna, spesso così
fragile e isolata, si perde nelle tortuose strade della giustizia, ne esce
ancora più indebolita e incapace di ricominciare a vivere in modo equilibrato.
Non trova sul suo cammino forme di sostegno emotivo, e competenze che aiutino a ristrutturare una
coscienza lacerata dal dolore.
D’altra parte, sotto il
profilo dell’autore del crimine, dell’aggressore e carnefice, quando il
processo riesce a concludersi in modo lineare, il sistema genera spesso una
situazione che è stata definita, non impropriamente, come “ibernazione
giudiziaria”. Il colpevole sconta la sua pena, ma quando esce dal carcere torna
a delinquere rapidamente, ricerca la precedente vittima o si rivolge ad altra (“Torna
in cella il pedofilo che aveva abusato di numerose bambine”, titolano di
recente i giornali).
La pena, priva di un
sostegno professionale che aiuti il colpevole a una riconsiderazione dei propri
atti e a una ristrutturazione della propria (deviata) personalità, si sottrae
al suo compito costituzionale d’essere non solo una punizione della condotta
criminosa e della colpa, ma anche un essenziale strumento di rieducazione
personale e sociale.
Il mostro che colpisce in
modo così feroce e sanguinoso è vissuto tra noi, ci è stato accanto, lo sarà
anche quando, dopo un tempo più o meno lungo, tornerà a vivere qui nelle case
nostre o in quelle vicine. La violenza, così prossima alla nostra esistenza, è
ancora più temibile perché lasciata libera di operare in solitudine e non è
contrastata da interventi efficaci.
Considerazioni inquietanti
accompagnano tanto le esperienze di vita delle vittime quanto le storie dei
loro carnefici. Esse giustificano un grido d’allarme perché queste vicende
hanno costi umani e sociali intollerabili. Recano una sfida e indicano una
necessità irrinunciabile: ricomporre il tessuto sociale lacerato e
problematico. Esserne consapevoli è il passaggio fondamentale. Poi può iniziare
il confronto tra professionalità diverse, istituzioni, associazioni, singoli
operatori, per dare corso alla collaborazione virtuosa di tanti, ciascuno nel
proprio settore, in nome di un ritrovato impegno civile.
Bella , profonda e completiva è la disamina del problema violenza tanto che non si può aggiungere altro che una nota: I bambini che assistono a scene di violenza domestica o che ne sono stati vittima in prima persona, manifestano problemi di salute e di comportamento: disturbi di peso, di alimentazione, del sonno. incontrano difficoltà anche a livello di studio, di frequenza scolastica, e di relazioni amicali. Non è raro la loro ricerca di fuga o di atti autopunitivi
RispondiEliminaPaolo Brondi
Analisi eccellente.
RispondiElimina