Il “Sessantotto”, una stagione tormentata: passione,
desiderio di rinnovamento, spirito di rivolta produssero un cambiamento dei
costumi e il riconoscimento di nuovi diritti. Eppure da lì ebbero origine gli
anni del terrorismo. Il filo conduttore del fondamentalismo ideologico da
quella esperienza ai giorni nostri
di Angelo Perrone *
Cosa rimane del ’68? Una mostra dal titolo “E’ solo l’inizio. 1968”
(sino al 14/1/18), alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di
Roma, si propone di raccontare quel periodo storico attraverso i possibili
intrecci con il mondo dell’arte, ricordando le “scintille creative” che
animarono alcuni movimenti dell’epoca: il minimalismo, il concettuale, l’arte
povera.
Era l’anno dell’ «immaginazione al potere»; del
«vietato vietare»; del «lavorare meno, lavorare tutti»; della «lotta dura,
senza paura». Degli ammonimenti minacciosi: «noi prenderemo, noi occuperemo». Dell’invito
a scelte esistenziali: «fate l’amore, non la guerra» evocando orizzonti diversi:
«mettete fiori nei vostri cannoni». Slogan urlati, scritti sui muri, ripetuti nelle
piazze, nelle fabbriche e nelle assemblee infuocate di studenti ed operai.
Nutriti di passione, desiderio di liberazione e di rinascita, anche voglia di
un cambiamento radicale.
Era il «Sessantotto», una stagione, alla fine degli
anni ’60, convulsa e accelerata, di cambiamenti sociali e di contestazioni a
tutto campo. Una fase di ribellione delle giovani generazioni, attratte
dall’ideale di rivoluzionare la società e la politica stessa, ponendo in
discussione i grandi sistemi che governavano il mondo, dal capitalismo occidentale
al socialismo reale. Un periodo anche contraddittorio: Pier Paolo Pasolini segnalò che il rifiuto nei
confronti di valori ritenuti borghesi era formulato dagli stessi figli della
borghesia contestata. «La borghesia si schiera sulle barricate contro se
stessa, i “figli di papà” si rivoltano contro i “papà”. Sono dei borghesi
rimasti tali e quali come i loro padri».
A distanza di cinquant’anni, lo scenario di quelle
rivolte è radicalmente mutato. Sono superate alcune delle principali condizioni
che costituirono il motivo scatenante delle lotte: tutto ebbe inizio infatti nei
campus americani dove gli universitari manifestavano contro la guerra nel Vietnam,
giudicata imperialista, oltre che in difesa dei diritti civili e contro le
discriminazioni razziali ai danni degli afroamericani.
In Italia, la prima Repubblica scricchiolava per il
fallimento dei progetti riformistici dei governi di centrosinistra, guidati
dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista, incapaci di fronteggiare la
crisi produttiva dopo l’esaurimento del “miracolo economico” che nel dopo
guerra aveva risollevato l’Italia. La continua emigrazione interna dal sud al
nord, per cercare lavoro, sembrava non avere sbocchi concreti. Il disagio
sociale era crescente.
Temi e situazioni di un’altra epoca, guardando
soltanto a quelle “parole d’ordine”. E così possono apparire lontani gli echi delle
contestazioni di piazza, delle occupazioni di fabbriche ed aule universitarie,
delle assemblee permanenti, che dettero voce collettiva alla rivolta di una
intera generazione.
Ma la protesta e il fermento sociale investirono profondamente
tutta la società italiana ed erano destinati a provocare cambiamenti radicali.
Non ci furono campi, dalle istituzioni sociali (famiglia, scuola, lavoro) al costume,
ai rapporti tra generazioni e a quelli di genere, fino alla condizione
femminile, nei quali non si manifestasse la protesta di tanti. Radicale appunto,
e generalizzata. Senza margini di confronto o dialogo.
Una rivolta, con una identità anagrafica costante (giovani
che si affacciavano al mondo degli studi e del lavoro) e riconoscibile anche esteriormente.
Persino la moda era omologata su canoni rigorosi (jeans, eskimo, capelli
lunghi), perché anch’essi volevano essere un segnale di diversità rispetto al
passato e di ribellione nei confronti delle consuetudini borghesi.
Il motivo conduttore dell’insofferenza fu certamente
rappresentato dalla contestazione sistematica del “principio di autorità”: nella
scuola, nella famiglia, nella fabbrica, nella stessa vita politica, attraverso
la denuncia di una sorta di concezione padronale nella vita pubblica che
rendeva “di classe” le sue strutture. La spinta antiautoritaria ed egualitaria,
unitamente alla richiesta di forme di democrazia diretta e di partecipazione,
mirava a capovolgere gli schemi gerarchici nelle relazioni di lavoro, di
studio, persino tra i sessi.
La
contestazione più dura investì i ruoli ritenuti rappresentativi del potere
gerarchico, facente capo alle figure sociali primarie: il padrone dell’azienda,
l’insegnante di ogni livello, il maschio in genere nei suoi atteggiamenti verso
il mondo femminile. Allora, occupazioni delle aule studentesche e delle fabbriche,
contestazione anche fisica degli insegnanti e dei “padroni”, mobilitazioni di
piazza in nome del femminismo.
Un trauma sociale dal quale, nel tempo, derivarono
frutti e conseguenze di segno molto diverso. Da un lato, per esempio, negli
anni ’70, le norme dello statuto dei lavoratori a difesa della dignità degli
operai e del valore sociale del lavoro, e quelle, tempo dopo, del nuovo diritto
di famiglia nel 1975 sui rapporti uomo-donna, e genitori-figli. Dall’altra, però,
anche la violenza politica, con le stragi, i sequestri, le rapine a scopo di
autofinanziamento della lotta armata e gli omicidi eccellenti e simbolici compiuti
dai terroristi delle diverse sigle. Il conflitto tra generazioni dava origine,
drammaticamente, anche (se pur non solo) ad esperienze collettive di sangue e
terrore.
La diversità delle strade intraprese dai protagonisti
di quella stagione turbolenta documenta non solo le contraddizioni di un’epoca
e la varietà degli orientamenti personali ma soprattutto, l’intreccio profondo
tra “vizi e virtù” che caratterizzò un intero momento storico e una generazione
di giovani.
Seguendo questo sottile filo, il ’68 costituisce un tessuto
di esperienze e di idee, utili anche per leggere le dinamiche politiche e
sociali di oggi, e persino per interpretare certe spinte fondamentaliste che
attraversano pericolosamente proprio il nostro presente.
Quella stagione rappresentò per molti versi un trauma
virtuoso quando la contestazione investì l’assetto rigidamente gerarchico di
tante realtà liberandole dalla dipendenza acritica, dalla soggezione immotivata,
dal formalismo. E quando mise in crisi costruzioni sociali basate
esclusivamente su principi di supremazia e di potere, che apparivano privi di
giustificazione.
Peraltro, il benefico tramonto di quell’autoritarismo
padronale ha rischiato di travolgere l’autorevolezza della funzione di guida
supportata dal merito e dalla competenza. Un conformismo al ribasso, nel nome
dell’ignoranza e dell’incapacità professionale per esempio nella pretesa del
livellamento degli studi e del conseguimento del “18 politico” per tutti.
Inoltre la contestazione nelle piazze si è accompagnata
al radicalismo sistematico della critica rivolta alla società tutta. Ne è
derivata una rottura totale con il passato, il mancato riconoscimento del
valore della storia, quale si era tramandata fino a quel punto nella vita di
ciascuno e nell’evoluzione sociale. L’assenza di riferimenti teorici
alternativi ha portato a sostituire il vecchio con un nuovo ancora più
ingombrante e pericoloso, rappresentato dai tanti miti, Mao, Lenin, Marx, invocati
per dare una svolta all’esistente.
L’osservazione di Pasolini a questo proposito era
assai più sottile di quanto potesse sembrare all’apparenza. Non solo i critici del
sistema ne facevano pur sempre parte integrante, ma piuttosto i figli,
contestando i propri padri, li sostituivano con figure (“padri simbolici”) ancora
più dominanti, superbi e sovraumani perché recavano la promessa impossibile di
riscrivere ex novo la stessa storia umana.
Si rompeva il patto tra le generazioni, a partire dal
suo nucleo centrale, il rapporto familiare figli - padri. Soprattutto, la
rottura avveniva nel modo più illusorio che la vicenda umana conosca, rinunciando
a fare i conti con il proprio passato, con i valori (condivisibili o meno) che aveva
espresso, nella convinzione fallace che tutto potesse avere un nuovo inizio,
che tutto potesse ricominciare daccapo. Nulla sarebbe stato più come prima, ma
tutto forse sarebbe stato più difficile, rendendo fragili le conquiste che
sarebbero poi venute.
Infatti ogni “rivoluzione” di questo tipo riporta
l’umanità al suo punto di inizio, non la fa progredire nel solo modo
praticabile, il confronto con i problemi del proprio tempo. Il terrorismo, con
il suo odio per l’esistente e per il “già costruito”, ha implicato, per una
intera generazione, la rottura con l’esperienza passata, e, simbolicamente, con
i propri padri, e ha comportato l’esercizio folle di una rimozione del “debito”
maturato verso la propria storia, con la rinuncia ad assumerlo come eredità da
riconquistare, quindi come il compito da svolgere nella vita mediante un
serrato confronto con l’attualità.
La violenza delle azioni terroristiche riflette in
pieno una rappresentazione della realtà nella quale, in assenza di una trasmissione
effettiva di doveri tra generazioni, non rimane che l’esercizio spietato,
atroce, di un potere tirannico di supremazia sull’uomo, quello esercitato verso
chiunque venga percepito come un nemico (giudice, o sindacalista, giornalista,
o politico): modello peggiore della realtà che si voleva combattere. Un mostro
più inquietante di quello rifiutato, come ha rappresentato sarcasticamente Woody
Allen, nel film Il dittatore dello stato libero di Bananas, con la
figura del rivoluzionario diventato più spietato del dittatore destituito.
Non ci si libera dalle ombre della storia se non
facendosene carico. Perché la propria storia non è un passato ingombrante da
rifiutare in fretta, ma un bene dal quale partire per compiere un lungo viaggio
di ricerca dell’identità attuale: dalle domande sul passato, su ciò che
eravamo, possiamo raccogliere risposte su ciò che possiamo essere oggi.
L’illusione perversa di una liberazione dai vincoli
del contingente, senza alcun faticoso esercizio quotidiano di conoscenza e
valutazione, accompagna in verità tutte le concezioni fondamentalistiche, siano
esse della politica come della religione. Un radicalismo ideologico che si
manifesta in forme differenti ma avendo in comune il rifiuto del principio di
realtà nell’approccio ai problemi che si incontrano: una minaccia che
attraversa anche gli anni più recenti.
Il rifiuto della storia, per esempio, spinge a
cercare disperatamente una “autorità potente” che – in sostituzione degli idoli
fallaci della modernità, come il consumismo, l’arricchimento, la libertà dei
costumi - guidi l’umanità in maniera infallibile: è l’elemento che induce a
predicare la follia di un Dio padrone e malvagio che pretende l’uccisione degli
infedeli e il loro sanguinoso sterminio. Come mezzo per contrastare la
corruzione imperante nella società e finalmente purificare il mondo dal male.
È sempre quel rifiuto del processo storico che esalta
il mito angosciante - evocato in molti paesi, non solo l’Italia – della totale
purezza rispetto a tutto il mondo circostante: dalle istituzioni ai circuiti
mediatici, dai partiti alle strutture pubbliche tutte. Senza tenere conto che
proprio l’esaltazione di una diversità assoluta e radicale, svincolata dal
riconoscimento del “debito” comune verso la propria storia, finisce per rendere
sterile e priva di speranza ogni critica al sistema, e impossibile la
costruzione di un nuovo mondo.
Da quel memorabile ’68, è scaturita anche una
successione di eventi alimentata da un profilo fondamentalista (pur variamente
declinato dal terrorismo politico, dallo stragismo pseudoreligioso, dal
populismo politico e sociale), comunque connaturato a forme di contestazione
assoluta del presente. Una dinamica, che continua a farci riflettere anche ai
giorni nostri. E a preoccuparci.
* Leggi anche:
Alla Galleria
Nazionale di Roma, le vibrazioni del Sessantotto in mostra, di Angelo Perrone,
La Voce di New
York:
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