(ap) Alla fine è morto, prematuramente, e
ingloriosamente. Non è arrivato neppure a Natale. Ha perso subito gli aghi dei
suoi rami appena giunto dalla val di Fiemme. E’ rimasto così a svettare, sconsolato
e triste, con le poche palline colorate e le scarse luci, che l’amministrazione
cittadina gli aveva messo addosso. I romani, sarcastici, lo hanno subito
soprannominato “spelacchio”.
E’ l’abete montato a Roma nella piazza principale,
vicino al Campidoglio e al Vittoriano, per celebrare la festa cristiana più
importante. Meta ora di pellegrinaggi e di messaggini partecipi della
disgrazia, “ti vogliamo bene comunque”, anche se “ti sei suicidato”, e
incoraggianti “resisti spelacchio”. Chissà perché lo ha fatto. Forse gli ha
nuociuto l’aria della capitale.
Er Pinto, uno dei membri de "I poeti der
Trullo", gruppo romano di ragazzi la cui aspirazione è di
ravvivare la città eterna con versi da strada, gli ha dedicato questa poesia.
Un grido di malinconia, di struggente lamento per le cose che non vanno come
dovrebbero, per l’incuria che ci circonda. Ma anche un modo di sorridere delle
sventure. Ammesso che tutto ciò basti a consolarci.
Si t’avessero comprato dar cinese
So’ sicuro che arivavi a fine mese
E invece devo dì, t’è annata male
Nun sei campato manco pe’ Natale
Ieri quanno t’ho visto ho detto cacchio
Nemmanco er tempo p’anna’ compra’
l’abbacchio
Che già davanti a li turisti vaghi
Avevi perso quasi tutti l’aghi
Te c’erano rimaste brutte e appese
Tre quattro palle lì, senza pretese
Chiunque te guardava da vicino
Se immaginava legna e ‘n ber camino
“Nemmanco a dì che je lo damo indietro”
“Mejo vede’ er presepe giù a San Pietro
Sperando che “Francesco” pe’ vendetta
Nun j’ha fatto spari’ ‘na statuetta”
Te immagini ‘sta vorta che bordello
Si mancasse dar presepio er bambinello
Artro che Pioppi, Pini, Abeti o Faggi
La colpa ar Papa, invece che alla Raggi
Ma a noi romani de ‘ste figuracce
Nun ce ne frega gnente, so’ fregnacce
Che ormai se semo abituati a falle
De secco c’avemo l’arbero...e le palle.
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