La doppia vita di un
insegnante: la stagione delle scelte violente, della volontà di trasformare il
mondo, di eliminare i torti. Con le bombe
Racconto
di Paolo Brondi
Il prof. Luca
Pieri era molto amato dai suoi quindici studenti. In quell’aula di università
pisana si respirava il sapere. Il programma verteva su “Nietzsche, potere e
giustizia” e le parole del prof. destavano echi profondi nella coscienza dei
giovani.
“Negli anni vissuti da Nietzsche - egli spiegava, ormai al termine delle due ore di lezione mattutine - profonda era l’accelerazione del processo storico, ma ancor più lo è nei nostri anni, non facilmente dominabile e anzi fonte di disagio, di incertezze, di contrasti: una tremenda dinamicità che provoca profonde contraddizioni e richiede pertanto di togliere le maschere della morale, della religione, della politica, della tecnocrazia.
“Negli anni vissuti da Nietzsche - egli spiegava, ormai al termine delle due ore di lezione mattutine - profonda era l’accelerazione del processo storico, ma ancor più lo è nei nostri anni, non facilmente dominabile e anzi fonte di disagio, di incertezze, di contrasti: una tremenda dinamicità che provoca profonde contraddizioni e richiede pertanto di togliere le maschere della morale, della religione, della politica, della tecnocrazia.
Vedete, quando si perde la dimensione della “passione”
sottratta alla nostra memoria dalle tragiche imperfezioni della nostra epoca,
si dimentica pure la gioia, quello stupore che si provava di fronte ai segreti
del mondo, quando l’occhio e la mente pura si spingevano oltre il muro della
caverna, verso una verità che la scienza, senza la finezza del gusto e l’occhio
disincantato e impigrito, disperdono in una fredda pluralità di eventi”.
“Professore,
non crede che smascherare le varie contraddizioni - chiese un’allieva – per
riguadagnare stupore e felicità, non comporti, in ogni caso, di fare i conti
con le stesse imperfezioni del nostro tempo e chi ci può garantire di non smarrirci
o invischiarci in esse?” “E’ vero, il rischio è grande, - rispose il prof. – ma
occorre ricordare quello che già abbiamo trovato in “Umano, troppo umano”,
ovvero la strada indicata da Nietzsche che è quella preminente della scienza, o
della ragione, il cui linguaggio e la cui logica è comunque più vicina al gioco
che alla necessità: una scienza come rottura delle barriere e delle differenze”.
“Nietzsche si
rivolge agli spiriti liberi e capaci di superare ogni pessimismo, dei
rinunciatari, dei falliti, dei vinti. Ed è lezione che oggi vale anche per voi:
voi che durate più fatica, in un tempo divorato dalle varie ossessioni della
modernità; voi che dovete essere più spirituali, più coraggiosi ed essere la
coscienza critica dell’anima moderna; voi che, come tali, dovete averne scienza
compiuta”.
Il suono
della campanella di fine lezione, interruppe l’enfasi delle ultime frasi del
prof. Pieri e smorzò l’applauso che di consueto veniva spontaneo da parte di
tutti gli allievi. Il prof. ringraziò e salutato ognuno evitò che continuassero
a fargli domande scendendo le scale e rapidamente uscì dall’aula e
dall’edificio. Era venerdì e non avrebbe avuto più lezione fino al martedì
successivo. Raggiunse la sua auto, posteggiata nel cortile dell’Università e si
avviò verso l’autostrada. Arrivò a Padova alle ore 18.30. Avrebbe dovuto
trovarsi in Prato della Valle, all’Hotel “Al Giardinetto”, non oltre le ore
19.00 e così fece.
Lo
attendevano due persone, di cinquantotto anni entrambi; l’uno, impiegato alle
poste, proveniente da Milano, l’altro, ristoratore, giunto da Bologna. Si
salutarono con grande affettuosità e, gustata una frugale cenetta, si
appartarono nella camera già prenotata dal prof. Pieri. Era una camera con
salottino. Il prof. Pieri prese posto sulla poltrona, i compagni sulle due
poltroncine.
Senza
preamboli, affrontarono le questioni sorte nei due mesi precedenti. “Ora è
giunto il tempo- così iniziò il prof. Pieri - per valutare la questione delle
colpe e delle responsabilità. Gli effetti della sentenza di condanna dei nostri
compagni ricadono su tutti noi. Siamo considerati uomini scellerati, fanatici e
irresponsabili. Si ritiene che la nostra colpa sia derivante dalla presunzione,
vana e delirante, di mutare, con le armi del terrore e della morte, la realtà
di un paese che pure, loro dicono, dal dopoguerra in avanti, ha garantito il
progresso in ogni comparto dello stato: siamo come ciechi di fronte a tanta
prosperità! Di più, forse noi che siamo stati gli ideologi e i primi promotori
della lotta al sistema ci siamo fatti prendere la mano: commercio della droga, rapine
in villa o altre simili attività, estranee alla nostra predicazione”.
Alfio, il
ristoratore, si alzò e si avvicinò alla finestra. “Se quelle stragi non ci
avessero spezzato la vita, nessuno avrebbe patito le nostre scelleratezze. E
poi, perché meravigliarci di quei risvolti della lotta che intanto sono stati
utili a far cassa – sapete bene di quanto ne abbiamo bisogno e non solo per noi
- e inoltre non sono in contrasto con l’obiettivo di minare le arroganti sicurezze
del sistema: la sofferenza, nutrita e intensificata giorno dopo giorno, conduce
a qualsivoglia deviazione.”. E così dicendo, piangeva in silenzio, con dignità,
mentre là fuori i colori azzurro-dorati dell’imbrunire accarezzavano le cupole
ed esaltavano il cotto antico di S. Giustina.
Nicola,
l’impiegato, aggiunse: “Colpe, responsabilità, dove cercarle se non nel nostro
passato di dolore e di immane tragedia? E chi è il responsabile se non il
sistema che deve essere quindi combattuto, cambiato, vinto, con qualunque forma
e mezzo” Intervenne il prof. Pieri, confermando le parole di Nicola e, nel
contempo, cercando di consolare la tristezza di Alfio: “E’ vero, i terroristi
non siamo noi, ma quelli che impersonano l’egoistica distribuzione della
potenza, incentrata nelle mani dei politici, dell’economia, del capitalismo
degli affari, delle borse, degli apparati militari, indifferente ai guasti
provocati dalla logica della quantità, dalla ipocrisia morale che, mentre
predica l’altruismo, l’abnegazione, il sacrificio, sotto quella veste nasconde
la crudeltà, l’irresponsabilità. Così, s’addensa la moltitudine di chi soffre ogni
tipo di disagio, dei senza speranza, dei senza futuro. E il dolore non rende
migliori, scava in profondo. Il tuo dolore, Alfio, il nostro dolore, brucia
come rami secchi di un ulivo centenario”.
In quel
momento il telefono della camera squillò e il prof, Pieri andò a rispondere.
Era l’addetto della reception che segnalava una comunicazione interurbana: “
Luca, sono Alberto, mi avevi dato tu questo numero, tempo fa, ricordi ? In
questi giorni sono tornato a Lucca ed ho saputo tante cose. E’ finita, Luca!”. Luca,
sorpreso, disse: “ Che cosa è finita?” “Tutto è finito, Luca, ora, ti ripeto, non
c’è più bisogno di lottare. Tutto è finito e non c’è più bisogno degli aiuti
finanziari da parte del tuo movimento”.
Il prof.
Pieri, quasi stranito e non comprendendo appieno la situazione rispose “Ma
come, così improvvisamente!” “Ed è finito, Luca, anche perché siete stati
scoperti: so da amici che la Procura di Lucca ha avviato un’indagine e voi
siete i principali indagati". Con queste ultime parole interruppe la
comunicazione. Il prof. Pieri, molto turbato cercò conforto nel parere dei suoi
due compagni. Nicola era alla finestra ma Alfio non era più nella stanza! Ed
era scomparsa pure la grande borsa che aveva con sé. I due ripetevano, con
ansia crescente, che Alfio quella sera era apparso strano fin dall’inizio e si
domandavano, dove mai fosse andato.
In quel
momento un grosso boato, un secondo, un terzo, fece tremare fortemente tutta la
stanza e andarono in frantumi i vetri di varie finestre. Nicola, guardò fuori e
si mise le mani nei capelli : “Dio, Dio mio, non ci posso credere: tre statue
di Prato della Valle non ci sono più, rovinate in un cumulo di macerie !”. L’ordine
e la quiete di alcuni minuti prima, quell’atmosfera di serenità nel connubio di
arte e natura di cui il Prato era ricco, non c’erano più: al loro posto
l’ululato delle sirene e le voci fitte e convulse della gente uscita impaurita
dalle case, dai bar, dall’Hotel Al Giardinetto. E là, non lontano dalle statue
cadute, un morto!
Alfio, il
ristoratore, al colmo del dolore e della disperazione, aveva installato i suoi
ordigni distruttivi ai piedi di ciascuna statua e non era stato così veloce, o
non lo aveva voluto, per fuggire tanto lontano, dopo averli innescati con timer
sincronizzati, da evitare che una scheggia di pietra, affilata come una spada,
lo raggiungesse trafiggendogli il petto e il cuore. Lo trovarono disteso sul
prato, quasi sorridente e con gli occhi aperti, rivolti alla luna.
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