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martedì 26 dicembre 2017

Era un tango delle rose

Il destino impossibile di chi ama: i drammi e le improvvise speranze

Racconto
di Paolo Brondi

Il festival di Villa Melzi era tutto all’aperto. Nel parco, assai esteso e prossimo al mare versiliese, il buio era sciolto in luminosità diffusa e suadente, arieggiata da numerosissime lanterne e da fiaccole antizanzara, dal dolciastro sapore di geranio, e su tutto si espandeva il soffuso chiarore della luna piena. Più in là, il mare rumoreggiava come un’eco mormorante “ricorda, ricorda, ricorda”.
Il pubblico, assai numeroso, entrava nel viale d’ingresso e veniva guidato da fasci di luce verso il cuore della festa: una pedana per ballare, sedie per sostare e tavoli ove gustare bevande e vari stuzzichini.
Giorgio e Silvia scelsero un tavolo un poco in disparte e la musica rock, o il ritmo facile di canzonette come Cuore, Abbronzantissima, Una lacrima sul viso, li raggiungevano sfumati ed in armonia con il mormorio del mare e i profumi del parco. Silvia era bella e il chiarore lunare impreziosiva la purezza delle linee del volto con appena una traccia di trucco, i capricciosi biondi capelli, il vestito di seta color fucsia che flessuoso scendeva, con graziosa scollatura, ad accarezzare il seno, il ventre piatto, la curva dei fianchi, arrivando fino al ginocchio.
Lui indossava una giacca di cachemire chiara, su camicia blu, un poco aperta sul petto, e pantaloni blu scuro. Il volto ben rasato e abbronzato esprimeva vitalità e virile fermezza. Qualche filo d’argento alleggeriva il nero della intensa capigliatura. Gli occhi esprimevano tutta l’intensità della sua mente: il mento volitivo, ma delicato, coronava la bocca dal disegno seducente e dal sorriso appena accennato e un po’ sardonico. Camerieri portavano a ogni tavolo vassoi colmi di salatini e coppe di vino frizzante o cocktail di frutta.
Giorgio e Silvia scelsero bevande alla frutta e, sorseggiando, si guardavano, occhi negli occhi e si scambiavano dolci sorrisi. Il silenzio di Silvia, solo apparentemente attenta a osservare il movimento d’intorno, destò in Giorgio sorpresa e domande: dov’era la Silvia che con tanto entusiasmo lo aveva trascinato a quella festa? La Silvia che, durante il viaggio in macchina, non smetteva di parlare, accostandosi a lui con maggiore confidenza, attraverso moti ora affettuosamente elogiativi sul suo modo di guidare, ora scherzosamente ironici sulla sua puntigliosità nel rispettare i segnali stradali, fermandosi al giallo come se - lei diceva - avesse paura dell’ignoto, dell’avventura, del pericolo? Dov’era la Silvia creativa, viva, sensuale, quando lasciava solo gli occhi parlare per lei, con una strana timidezza ?
Anche la sua ex moglie, Anna, amava contorcersi nel silenzio che giungeva improvviso e durava non solo dopo un litigio, ma, assai sconcertante, durante il pranzo, passeggiando, facendo l’amore. Giorgio tardò, volutamente, a comprendere la natura di quel silenzio: un vuoto, una diminuzione di senso, un crescente ridursi all’insignificante da parte di lei che sentiva l’irreparabilità di una unione che, giunta precocemente nella sua vita, con gli anni si era sfilacciata e aperta al vuoto degli slanci, dell’entusiasmo, dell’amore, rendendo sempre più preferibile la solitudine Silvia, in realtà, non era sola e lontana da lui: il suo silenzio era paura di dire a parole quello che provava.
In quella festa di luce sentiva una felicità insolita. Non solo era splendido trovarsi con Giorgio in quella circostanza, ma era importante che si fossero incontrati nel momento giusto per riannodare insieme fili un tempo spezzati. La felicità di Silvia si innalzava oltre lo spazio di quella sera, riannodandosi alla gioia, ancora fresca in memoria, del suo primo innamoramento: illuminante, allora, solo per lei, in quanto la persona investita da quel sentimento ne era completamente all’oscuro. Accadeva al tempo della sua quarta ginnasio: si innamorò del liceale per lei più interessante, più elegante, più bello fra quelli che frequentavano la Terza A del celebre Liceo Carducci in Viareggio.
Ma lui non se accorgeva nemmeno: non aveva occhi che per la sua compagna di classe, Anna, la primogenita dal prof. Sarte, ordinario di Psichiatria nell’Università di Pisa; con lei usciva, con lei andava in pizzeria, in discoteca. Silvia non si disperava. “Un giorno sarà mio!” continuava a ripetersi, specie prima di addormentarsi, così da vivere almeno nel sogno i baci e gli abbracci ancora negati. Poi il tempo illanguidì quell’amore iniziale: Giorgio Lenzi, uscito dalle aule del Liceo, mancò alla vista di Silvia per molti anni. Lo ritrovò quando ormai era divenuto docente universitario, nella conferenza che, anche lei ormai laureata e ricercatrice, era andata a sentire insieme alla sua amica Lucia e che aveva preceduto di solo un mese l’incontro alla mostra di pittura.
La felicità, spesso turbata da eventi di segno opposto che pure possono maturare una diversa ed esperta coscienza esistenziale, Silvia l’aveva vissuta sposandosi, a solo 22 anni, con Mario, un ingegnere informatico il cui ordine di vita era riposto essenzialmente nella logicità dei numeri e delle forme. Tutto il resto, perfino la moglie, era relegato a una quotidianità appiattita e ingrigita, con continue cadute di senso e contrazione di ogni entusiasmo. La gioia di Silvia, la sua passione e la voglia di vivere con tutta la sana pienezza, erano da Mario costantemente frenati e ricondotti a misura. Significativa fu la sua resistenza ragionata a non voler figli: «È ancora troppo presto. È una responsabilità da valutare con profondità», continuava a ripetere.
Silvia rimase legata a Mario otto anni. Furono anni di progressivo malessere e di continua, sottile, sofferenza, causa la crescente opacità della quotidianità; un dialogo sempre più raro e banalizzato, un continuo rifuggire da scelte in comune: una festa di compleanno, una cena con gli amici più cari, un regalo, e quindi impoverita di alcuna intimità. Infine, cercò rimedio in situazioni choc, con lo scopo di spezzare radicalmente lo scorrere routinario e di introdurre nei propri giorni possibilità prima solo sognate o fantasticate, oltre le misure, oltre la razionalità, oltre Mario!
A 30 anni, ottenne la separazione consensuale. «Silvia, vuoi ballare? Mi hai chiesto di portarti qui per ballare, non è vero?» «Sì, Giorgio, scusami. Si sta tanto bene qui. Aspettiamo ancora un poco.» Lui le prese la mano e lentamente se la portò alle labbra: un bacio lieve su una mano delicata e fredda. La scaldò e poi prese ad accarezzarla lentamente. Silvia, fortemente turbata, stava per dire qualcosa, ma si trattenne. Avvertiva il sorgere di un rapporto dolcissimo, ma temeva la forza dello stupore che si traduceva in una spinta a una disponibilità senza limiti verso una affettuosa intimità con Giorgio.
Di colpo provava indifferenza per le vicissitudini della vita, per il malessere, le delusioni e le frustrazioni subite, colmata d’una essenza preziosa: l’amore, aurorale nell’adolescenza, assolato e maturo, ora che compiva 33 anni! «Giorgio, non so quello che mi succede, ma vivo qualcosa di mai conosciuto prima. È come se mi apparisse un nuovo silenzio, un nuovo mistero». Giorgio, all’oscuro dei trascorsi di Silvia e inconsapevole di averla avuta compagna innamorata di liceo, per quanto attratto dalla bellezza di lei e anche desideroso di conoscerla un poco più a fondo, comprendeva solo relativamente l’esplosione di felicità di Silvia, non senza un profondo senso di pena per lei.
Da parte sua, si era abituato alla solitudine che, vissuta senza malinconia o nostalgia, gli aveva fatto conoscere la forza straordinaria dell’imprevisto e del caso, oltre la pianificazione rigida e definitiva, e in grado di offrirgli continue chances di gioia e coinvolgimenti con partner a livello di semplice “amicizia erotica”, come la chiamava, dopo aver letto Kundera. «Silvia, mi sorprendi! Quale silenzio, quale mistero appare ora, in questa notte così chiara, c’è la luna, c’è la luce. Non senti i profumi dell’estate: perché “mistero”?» «È un mistero da non confondere con la comune segretezza, apre, invece, alla riflessione, alla interiorizzazione, alla separazione fra il dominante grigiore e la luce della scoperta, della riscoperta di te, Giorgio.». «Di me? La riscoperta. Perché?».
Lo sguardo di Silvia si fece pieno di pudore nel desiderio di rivelare il suo amore adolescenziale e nel contrastante impulso a tacere l’ormai tardo segreto. Aveva anche paura di banalizzare l’incanto di quella sera, di quell’incontro, con una verità che avrebbe potuto apparire puerile. Come le era accaduto quando, ancora liceale con i suoi sogni intatti, incontrando Anna le aveva confessato il suo amore per Giorgio. Aveva avuto in risposta una sardonica risata e un compatimento: «La tua è solo una fantasia, una cotta adolescenziale. Giorgio ha bisogno di una donna, ha bisogno solo di me!»
Si era sentita rifiutata, annullata nella pienezza dei suoi sentimenti. Da quel giorno, lungo fu il tempo della sua solitudine priva del calore dell’immagine tanto evocata, e il rimpianto, la nostalgia venne a sostanziare la tensione che la portò a trascendere il vecchio, per un nuovo tutto da conquistare. E in questo trapasso cercò sempre di evitare ciò che impoverisce la propria interiorità o la ripetitività noiosa e priva di senso. E ora, che la sofferenza si apriva a una nuova felicità, temeva di dire parole al “suo” Giorgio con il rischio di tradire con esse quello che nell’intimo sentiva. Per lei parlarono gli occhi. Rispose ai perché di Giorgio con crescente intensità dello sguardo. I suoi occhi vollero esprimere messaggi alati d’amore, carezze velate di gioia, baci come sospiro divino, abbraccio di anime da naufragio salvate.
Giorgio si fece più serio: leggeva negli occhi di Silvia l’invocazione a un tipo di amore che gli era sconosciuto; un amore diverso dalla fusione immediata, dal contatto per galoppante erotismo. Un amore, non cumulo di frantumi, non egoismo, ma unione fra due solitudini che ritrovano il gusto di un nuovo incontro, di una nuova, straordinaria, avventura.
Intanto la musica filtrava più chiara fra gli alberi del giardino e le note di un romantico tango, il Tango delle rose, facevano eco ai sentimenti di Silvia e Giorgio, e rendevano più intimo il ballo dei numerosi invitati Quelle note risvegliarono in Giorgio lampi di immagini e il ricordo assunse figurazioni più nette: rivedeva occhi di intensità paragonabile a quella che esprimeva Silvia. Occhi che lo colpirono quando alla festa di fine anno della sua terza liceo, una ginnasiale gli si avvicinò per chiedergli di comprare un biglietto della lotteria studentesca, non la voce, ma gli occhi, così intensi, lo indussero ad acquistare più di un biglietto. Non ricordava più il viso di quella ragazza, ma gli occhi sì, e la nuvola bionda dei capelli e le parole con cui accompagnò la consegna dei biglietti: «Sarai sempre felice».
Restò impressionato e turbato dalla spontanea intensità di quella ragazza, ma non riuscì a chiederle il nome. Lei si dileguò subito, confusa fra i ragazzi. Dopo non la cercò: l’ansia degli esami, l’assidua frequentazione di Anna lo distolsero dal proposito. In lui rimase solo la traccia di quel momento. Intanto, le note del Tango delle rose si facevano più sonore e Giorgio, presa la mano di Silvia, la indusse ad alzarsi. «Andiamo, vieni con me, lasciamo questa festa e andiamo incontro alla nostra felicità». Giorgio guidò Silvia verso il mare non lontano.
La sabbia era tiepida, e il ritmico canto del mare verso la luna sopra sospesa e rosseggiante, rendeva sciolto e facile il sussurro di Giorgio: «Sei tu, sei proprio tu, dimmi che è vero! La ragazza che mi disse “sarai felice”. I suoi occhi, i tuoi occhi, mi hanno sempre accompagnato, non sapevo perché, non ricordavo di chi fossero. Ma sempre mi sono riapparsi in sogno come un ideale, un fine da raggiungere e ora sei qui, siamo insieme!» Silvia non lo lasciò finire, d’impeto lo abbracciò e vennero i baci sognati, le carezze sospirate. In pochi secondi, anima e corpo si fusero in un tenerissimo abbraccio, poi la sabbia si mosse, si sparse più in là, offrendo, insieme al profumo del mare, culla ai loro corpi e le mani trovarono luoghi familiari e ogni segreto rifugio fu reciprocamente donato nell’eterno gioco d’amore.

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