Il modello poetico degli “haiku” esprime una diversità di atteggiamento
tra cultura occidentale ed orientale: la scrittura non si propone di
rappresentare la realtà
di
Bianca Mannu
Tra me e te
Questa deviazione
Di sguardi
Haiku:
singolarissimo prodotto letterario! Ecco che persone come me, così poco edotte sui
modelli culturali orientali, subito trovano qualche corrispettivo nostrano.
Anzi, presumendo che tutto sia esposto sulle superfici, viene subito in mente
l’ungarettiano “M’illumino d’immenso”, diamante purissimo.
Ma
l’haiku – sostiene il grande linguista e semiologo del ‘900 Roland Barthes - non
ha niente a che fare con la nostra carica narcisista che rimanda a un dentro
opposto a un fuori, filtrati e reinventati da un io mascherato ora da Demiurgo
ora da reietto.
Forse
bisogna leggere, o rileggere, il suo illuminante volumetto, L’impero dei segni, per farsi un’idea della
differenza di atteggiamento - per così dire, esistenziale - sottostante ai
portati delle due culture, occidentale da un lato e giapponese dall’altro, e per
concepire l’improbabilità che il soggettivismo narcisista di cui siamo nutriti
– e che è anche la nostra, peraltro grande, cifra culturale - possa con un atto
“tecnico” lasciare il suo spazio al vuoto interstiziale dell’«effrazione» e della «sospensione del senso» insiti nei tratti strutturali del vivere
e del porsi in relazione con le cose e con i propri simili, di “scriversi”,
ecco, da parte dei giapponesi.
Infatti,
il risultato dell’analisi barthesiana, sintetizzato nel titolo dell’opera, è
che il Giappone sia «il paese della scrittura” nel senso che
l’intero sistema di vita si configura come scrittura, ossia l’opposto della
rappresentazione o della raffigurazione, che sono i timbri dell’Occidente.
Perciò l’haiku
rimanda a «un modo grafico di esistere», la sua cifra è il «tratto liberato
dall’immagine», un segno come una sorta di cesura che «non esprime, ma, semplicemente,
fa esistere». In quanto tale esso è netto, esatto, non ha bordi né sbavature, è
gesto senza ripensamenti, senza soggetto e senza Dio, ossia senza l’allusione a
una verità retrostante o soprastante, è «il vuoto stesso d’una nota musicale”.
Dunque
l’impressione, l’apparizione in parola non diventa mai descrizione, teatralità,
allusione al pittoresco o al romanzesco, ma è scrittura alla prima. Incantata una
seconda volta dal fascino di questo libro analitico del corpo vivo di un
sistema esistenziale che si fonda sul segno e non sull’immagine, e che fa di
questa sua caratteristica il fondamento delle sue arti, mi gratifico col
piacere di accludere un haiku citato da Barthes: Soffia il vento d’inverno/
Mandano lampi/Gli occhi dei gatti.
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