Curiosità, interessi, eccentricità di un’anziana
signora. L’abitazione come vicenda personale, ma anche collettiva di un’epoca. Poi la
malattia. Il pudore. E un pizzico di ironia
Racconto
di Angelo Perrone
La camera da letto non era
uguale a nessun’altra e lei non avrebbe mai voluto lasciarla. Ma un giorno Teresa
fu ricoverata in ospedale, e vi rimase per un tempo che le sembrò eterno.
Abitava in un palazzo d’epoca
umbertina, vicino al fiume. Le finestre dell’appartamento, posto all’ultimo
piano, si affacciavano su un ampio viale, ai bordi del quale alberi altissimi
sfidavano il vento. Lo sguardo poteva distendersi liberamente su tutta la parte
nord-ovest della città sino alle colline da cui, in primavera, giungeva il
profumo dell’erba nuova.
Teresa era così orgogliosa di quella posizione ariosa
e panoramica che, quando andavano a trovarla, non mancava mai di accompagnare gli
ospiti sul balcone dal quale si poteva osservare il panorama. Mostrava
compiaciuta la bellezza del paesaggio come se ne avesse un merito. Lì vi si
tratteneva nel tepore dei pomeriggi estivi, indugiando ad assaporare l’aria fine
che si respirava ad un’altezza superiore allo smog del traffico.
La breve sosta sul balcone divenne, per gli ospiti,
un rituale inevitabile, tanto che lei, troppo presa da questa civetteria, spesso
dimenticava di averlo già svolto. «Una sorpresa. Vi faccio vedere un posto
stupefacente», ripeteva, prima di chiedere un commento.
Gli ospiti, per fortuna, non facevano trapelare
nulla, erano disposti ad assecondarla con una reazione sempre piena di
meraviglia.
Non che lei fosse stravagante o eccentrica, o
addirittura partita di testa. Al contrario, manteneva in un corpo piccolo e
snello, nonostante l’età avanzata e gli acciacchi, una straordinaria lucidità
mentale e, di natura, era tutt’altro che incline a dar corpo a fantasie.
Semplicemente, quel vezzo era un riflesso del suo
amore per la casa. Era stata acquistata con sacrifici nel dopoguerra e poi
arredata con gusto nel corso degli anni. A buon ragione conservava il fascino e
il sapore delle cose del tempo antico. Ci stava proprio bene.
Dopo essere andata in pensione, rimasta ormai sola in
casa perché il marito era morto da tempo e i figli abitavano per conto loro, aveva
avuto finalmente il tempo di coltivare le sue passioni, non era più costretta alle
corse di un tempo.
La casa si riempì di libri, con una predilezione per
quelli di storia, e la maggior parte fu messa proprio nella camera da letto, la
stanza nella quale alla fine trascorreva più tempo specie quando le gambe
cominciarono a non funzionare a dovere.
Estroversa com’era, la signora si appassionava ad
argomenti diversi, dall’attualità alla lingua italiana, alla cucina. Ritagliava
dai giornali notizie curiose ed informazioni utili, e, quando la radio o la
televisione trasmettevano servizi che la incuriosivano, prendeva appunti. Certe
sue rapide annotazioni, che poi nessuno, tranne lei, sapeva decifrare, capitava
di trovarle ovunque. Non solo su fogli di carta, ma anche a margine di
qualsiasi altro materiale le fosse capitato a portata di mano, agende,
giornali, buste, scontrini.
Raccoglieva molte ricette di cucina: la sua arte. Riusciva
a preparare pranzi originali in pochissimo tempo. Faceva acquisti al vicino mercato
di quartiere dove tutti ormai la conoscevano bene. Il soffritto di aglio per il
sugo si sentiva sin fuori la porta di casa. Il profumo di farina era il segnale
della preparazione dei ravioli o delle torte di ricotta.
Il ricamo no, ci voleva troppa pazienza. Invece le
piaceva cucire. C’era sempre sul tavolino qualche indumento, suo o dei nipoti,
da rammendare o modificare. Vecchi vestiti cambiavano facilmente forma o uso e,
proprio quando sembravano destinati alla spazzatura, trovavano un’altra vita.
Nella sua stanza le facevano compagnia i ricordi più
cari. Piccoli regali ricevuti in occasioni particolari. Soprattutto fotografie.
Quelle dei parenti stretti, immagini che nel tempo documentavano il passaggio
da una generazione all’altra.
Un giorno di fine autunno si rese necessario il ricovero
in ospedale per accertamenti medici dato che i problemi alle gambe si erano
aggravati e avevano costretto la signora dapprima a diradare le uscite da casa
e poi a rimanere immobile in poltrona o a letto.
Mary, che assisteva Teresa da qualche settimana,
approfittò dell’assenza non solo per sistemare la camera in attesa del suo
ritorno ma anche per qualche intervento più radicale. La stanza fu liberata di
molte cose che erano amate dalla signora ma che erano diventate ormai superflue
dopo la malattia. Furono infilate negli armadi sgomberando tavolini, sedie,
scrivania.
Il letto fu rifatto da Mary con lenzuola dai piccoli
disegni rossi a forma di rombi immaginando di incontrare il gradimento della
signora che preferiva colori vivaci: «Si abbinano meglio all’arredamento e poi creano
allegria», osservava.
Le vecchie persiane furono lasciate accostate in modo
che filtrasse la luce che proveniva dal cortile interno del palazzo. La signora
non amava il buio, voleva che le stanze fossero inondate di luce. «Apri le
finestre», si raccomandava sempre.
Una tenda bianca trasparente rendeva calda la luce
all’interno della stanza da letto. Nonostante la nuova sistemazione, era
rimasta intatta la presenza nascosta di Teresa, come rondine confusa
all’interno di uno stormo. Tutto era pronto per il suo ritorno a casa.
Sul letto fu appoggiato, non si sa da chi, il
bastone. A metà del materasso, un po’ di traverso. Era piccolo, sottile, tutto
di legno marrone, ricordava il bastoncino di Charlot. Le era stato regalato
dopo l’operazione al femore cui si era sottoposta tempo prima perché all’inizio
della riabilitazione camminava a fatica, ma non amava usarlo specie in strada.
Non le andava a genio.
Certo aveva bisogno di aiuto, ma, secondo lei, il
bastone rendeva più visibile il difetto di deambulazione, che il suo innato pudore
spingeva a tenere nascosto. D’altra parte quel legno, così semplice, era stato
scelto proprio perché desse meno nell’occhio e non attirasse l’attenzione sul suo
passo faticoso.
Finì allora per farne a meno, voleva cavarsela da
sola e così camminava piano con un’andatura ondeggiante che, secondo lei, gli
altri potevano confondere con le incertezze dell’età. Al massimo, quando la
fatica si faceva sentire, ricorse all’astuzia di portare comunque un ombrello per
appoggiarvisi all’occorrenza.
Non servì comprarle un bastone davvero elegante, di
legno lucido, con la testa argentata di un cavallo. Stavolta elogiò molto
l’oggetto, fu prodiga di ringraziamenti ma il risultato non cambiò: anch’esso
non fu usato se non in qualche rara occasione sociale in cui sembrava che la
signora, anziché servirsi del bastone per sostenersi, lo sfoggiasse come
accessorio raffinato del suo abbigliamento. Poi si riprese dai postumi
dell’operazione, riacquistò una sufficiente mobilità e non ebbe più bisogno di
alcun sostegno.
L’anonimo e trascurato bastone marrone, messo da
parte per anni, tornò improvvisamente utile tempo dopo, quando la signora fu
colpita da una più grave malattia che ne limitò progressivamente i movimenti.
Non che si fosse decisa stavolta ad usarlo mentre
camminava. Il ritegno la induceva a farne a meno, e, per spiegare il suo
atteggiamento, adduceva svariati motivi. In modo per nulla convincente. «Ora
non mi serve». Oppure: «Mi fa inciampare». Infine: «L’ho dimenticato a casa,
peccato».
Anche quando era evidente che avesse necessità di un
aiuto, utilizzò ogni espediente pur di non uscire da casa appoggiandosi a quel
pezzo di legno, Al più, andando da sola, riprendeva l’ombrello, oppure, quando
era in compagnia, teneva per il braccio, con affettuosa noncuranza, il suo
accompagnatore. Forse vedeva nell’uso del bastone l’ammissione del
peggioramento della malattia e la cosa l’amareggiava parecchio. Non pensava
tanto alle conseguenze per sé, alle difficoltà che avrebbe dovuto affrontare,
alle sofferenze che ne sarebbero derivate. Temeva piuttosto di essere
d’impaccio per la sua famiglia.
Non bastò esorcizzare la malattia per evitarla.
Nonostante le resistenze, dovette piegarsi all’idea di utilizzare degli appoggi
sanitari. Prima uno solo, poi due, e se ne servì ma solo per spostarsi da una
stanza all’altra, evitando comunque di uscire dall’abitazione in quelle
condizioni, finché non cominciarono dei periodi di maggiore immobilità.
Fu allora che quel legno trovò, per la prima volta,
una ragion d’essere consistente. Ma non la sua propria. Diventò, in mano alla
signora, una specie d’arto meccanico che potenziava miracolosamente i movimenti.
Integrava in qualche modo le mani, non le gambe.
Il bastone era impugnato alla rovescia dalla parte
opposta al manico, quella che poggia per terra, in modo da poter disporre,
dall’altro lato, di una specie di gancio. Così aumentavano le potenzialità
delle braccia, e la signora poteva spaziare oltre il letto, o la poltrona, per
avvicinare a sé oggetti lontani, riprendere cose cadute a terra, sistemare le
coperte. L’invenzione attenuò la sensazione d’impotenza fisica mentre l’ingegnosità
del ritrovato rialzò il morale della donna. Cominciò persino ad apprezzare quel
legno.
Il massimo d’utilità quell’aggeggio lo ebbe in
abbinamento con un’altra invenzione, il filo di nylon legato alla maniglia
della finestra. La donna aveva difficoltà a sollevarsi, scendere dal letto,
muoversi. Fece mettere un filo con cui, a distanza, poteva aprire a piacimento
la finestra. Ma talvolta non era più a portata di mano, cadeva a terra,
rimaneva penzoloni alla finestra. Ecco allora l’altra idea, usare il bastone
per afferrare il filo e riprendere il controllo della situazione.
Ora il bastone marrone era adagiato sul letto nella
camera, ordinata e vuota, che il trascorrere dei giorni riempiva di nostalgia.
Senza di lei, in quel silenzio immobile, era un attrezzo inutile, privo di
senso. Ma il contatto con il letto della signora gli faceva immaginare che un
giorno, lui legno di modesta fattura e senza pregio, avrebbe potuto ancora compiere
un prodigio se la signora avesse escogitato qualche nuova invenzione.
Uno sguardo nella vita di una persona, ai particolari che appaiono anche teneri, alle piccole cose che delineano un mondo. La malinconia della malattia e il resistere, anche con la fantasia.
RispondiEliminaBellissimo racconto dolcissimo
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