Affrontare l’abbandono: i ricordi, le domande, lo sguardo verso il
futuro
di Paolo
Brondi
Federica non attraversava un bel
periodo, ma in quel giorno sentiva un presagio di cose nuove. Uscita dalla
doccia, apprezzava il conforto della sua casetta, pensando e ripensando che da
quando aveva scelto di vivere sola, non si era rinchiusa a riccio, ma aveva ritrovato
in sé i sentimenti più reconditi, riprendendo a godere di ogni attimo della
vita: il rumore del mare, la pioggia, la rugiada, il canto degli uccelli, il
profumo dei fiori.
Aveva conosciuto moltissime persone, nelle sue scorribande di donna libera, con qualcuna delle quali aveva stretto rapporti più affabili, con pochissime anche intimi.
Aveva conosciuto moltissime persone, nelle sue scorribande di donna libera, con qualcuna delle quali aveva stretto rapporti più affabili, con pochissime anche intimi.
Ma non sapeva più che cos’è l’amore.
Non conosceva più quel nodo alla gola che la faceva restare senza respiro e la
distraeva da tutto. Ogni persona le sembrava amabile solo per certi aspetti,
mai in tutto. Ovunque si sentiva straniera, provava sempre una porzione di
disappartenenza. Non stava comunque male, anzi, mai era stata così in pace con
se stessa. Solo in certi momenti soffriva la mancanza di una dialettica vera,
al di fuori del cicaleccio d’intorno. Sottile era il suo tormento quando
riaffioravano i ricordi di una cattiveria o lo
struggimento di una carezza o l’aver voglia di pensare, di rivedere con gli
occhi della immaginazione l’uomo che aveva amato e che ancora amava.
Lo aveva incontrato in un
momento particolare di ricerca di affetto, di comprensione, di amicizia, di
condivisione di interessi musicali, di rarefazione, fino a provare
l’impressione, gradevole, confortante, seppure un poco angosciante, di essersi
ritagliati un tempo che aveva il fascino del mistero, di una realtà che nessun
ripensamento oscuro o senso di colpa, o paranoia valutativa, sarebbe riuscita a
sminuire. L’aveva conosciuto durante un convegno di psichiatria, a Milano: si
chiamava Luca e, quando le venne presentato, e le strinse la mano, le sue dita
lunghe e calde lievi si posarono sulla sua pelle e un intenso brivido di
piacere si diffuse in ogni parte del corpo.
Era psicologo e gli fu
facile coinvolgerla subito in un crescendo di incontri: sempre nei weekend e
nelle più belle atmosfere d’Italia e con medesima poesia. Sceglievano sempre pizzerie o enoteche, ove il frugale consumo si
ritraduceva in valori simbolici: apparentemente il trionfo delle esigenze del
corpo, in realtà l’esaltazione suadente e gioiosa della loro soggettività,
proiettata in minimale gestualità, resa euforica da vini squisiti e orientata
da un sentimento trepido e splendente. Quando la scelta li favoriva,
preferivano un angolo prossimo a una finestra, ove luci diffuse e tenue
bagliore di candele, consentissero un ulteriore risalto alla bellezza di lei,
alla sua dolcezza di donna, assetata di essere vera, accolta, amata, e a lui il
dono di parole affabulanti e nuove per preziosità amorosa.
Poi, dopo la fame
saziata, le loro mani si cercavano in una rinnovata ansia di appartenenza, e
così intrecciati andavano per vie strette e pallidamente illuminate, fino al
loro albergo. E qui, i loro corpi, subitamente liberi dei costumi del mondo, si
univano, in tenera e crescente armonia sessuale della corporeità tutta, non
senza mirabile apporto di una fantasia prorompente ed essenzialmente creativa
che dilatava i tempi dell’amore e strappava profondi sospiri di godimento
ancestrale e beati sorrisi di appagamento totale. Facevano scivolar via le ore,
nel loro tempo, fatto di “carezze qui,
carezze là” - come cantava il loro autore preferito - e di parole alate,
fiori dai petali morbidamente sparsi intorno a due persone felici.
Poi il tracollo!
Luca scomparve! Cominciò con il non confermare un successivo week end inviando
per fax un freddo messaggio: “Federica, sono tremendamente spiacente, ma non mi
è possibile rivederci nel prossimo weekend. Devo partecipare ad un importante
meeting a Madrid, ciao, a presto”. Non ci fu seguito! Giorno dopo giorno tutto
era più vuoto, ogni cosa trasmutava colore, appiattita nella monotona e fredda
cadenza delle ore. Eppure a lungo perduravano nella sua mente e nel cuore
folate di immagini, sempre belle e pure, in un mare di sentimenti, un mare non
tempestoso e oscuro, ma appagato dal calore del sole e dal tepore della luna.
E tornava memoria
del loro ritrovarsi in stazione, con anelante reciproca attesa, i baci sospesi,
ritardati e frementi sotto la pensilina, le carezze lunghe, insaziabili nel
loro andare, nell’aria limpida, intensamente azzurrata, attraverso i saliscendi
delle strette vie o i vicoletti che rinserrano la vista per poi liberarla verso
splendide policromie paesaggistiche. Era sorprendente per lei rivedere in quel
corpo, ormai completamente assente, occhi che ti guardano intensamente per dire
chissà.
Cercava quello
sguardo, parole, affetti, risonanze che pure ormai erano come luce silente e le
pareva che quegli occhi, quello sguardo lungo, carezzevole, fossero come le
campane pascoliane, invocano, chiamano oltre lo spazio oltre il tempo in un naufragare
nell’indefinita assenza. Riviveva l’ultimo incontro, non paragonabile a nessun
altro per aver provato una gioia incontenibile: quella manifestata dal rinato
significato di donarsi ad un uomo, come donna di casa, brava, ricca di genuino
entusiasmo nella preparazione di un pranzo per lui, segno di perfetta sintonia,
affiatamento, sincronia, anche nelle piccole umili cose: preparare la
macedonia, triturare il prezzemolo, aprire la bottiglie di vino.
Tentò di fuggire questa
temperie di sentimenti e se ne andò sulle nevi, in Engadina: un paesaggio
meraviglioso bagnato da profondi silenzi, inconsueto, suggestivo, un paesaggio che
la vide sola e pensosa, ma via via più rasserenata, meno fremente di amore per
lui. Si rafforzò in lei la convinzione che fosse
meglio non aver più a che fare con una persona simile, nessun contatto, nemmeno
un ciao, far tacere tutto! Si riprometteva di abbandonarsi all’oblio che
avrebbe segnato la fine di tutto. Ma poi, riflettendo che l’oblio è sempre
esposto al possibile ritorno di ciò che si crede o si spera cancellato perché
fa parte del tempo e il tempo non comporta il concatenarsi rigido e discontinuo
di passato presente e futuro, ma comprende e tiene in vita inizio e fine di
ogni esperienza, tornava a interrogarsi “Perché questo ostinato e tenace
rifiuto che peraltro, a volte, sento che rafforza la mia autostima? E’ un
imposto meccanismo di difesa, di controllo?
Si ricordava, la metafora
dei tre alberi, di Proust “Se non ci terrai con te, se non ci ricorderai, se
non risolverai il nostro enigma, una parte di te stesso ci sfuggirà”. Si
illudeva che le rimanesse uno spiraglio di sole. Di speranza. Quella di risentirlo.
Di una sua telefonata, di un suo richiamo. “Senza di te -si diceva- sarò
veramente sola, non mi importerà più di niente e allora il mare sarà veramente
il mio rifugio”. Lottava per non ridursi a pensare che forse era stato tutto un
gioco, un capriccio dettato dalle costellazioni astrali, oppure che si sia
trattato di una febbre, destinata a crescere, ma poi ad esaurirsi con una cura
adeguata.
Aveva creduto che la cura potesse
essere quella di un fisioterapista moto bravo. “Il mio fisico sta somatizzando il dolore affettivo che
sto vivendo: la schiena è bloccata”. Da lui ricevette un compito: per tre
settimane non leggere, non scrivere, non parlare più dell’ex, lasciare in
sospeso qualsiasi pensiero che arriva, lasciare andare. Abbandonarsi al
presente senza più parlarne con nessuno. “Inizialmente – si ripeteva - mi son
detta che aveva ragione…però poi, ripensandoci meglio, non credo che sia
importante parlare o non parlare di lui. Non è determinante che io lo pensi o
meno. E’ l’atteggiamento dentro di me che deve mutare. Siamo noi che guardiamo
la realtà e diamo un significato alle cose in relazione a quello che siamo e
sentiamo dentro. E’ difficile da accettare, ma questa è l’unica strada che
sento e vedo oggi percorribile”.
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