Permessi a mafiosi e terroristi: polemiche dopo la sentenza della Corte costituzionale. La decisione “caso per
caso”, non è poco rigorosa, se ancorata a precise condizioni. Però segna il fallimento della politica dei
facili “automatismi” nell’applicazione della legge, inadatti a regolare realtà multiformi
Criminali in uscita?
(ap*) Una decisione faticosa,
certamente contrastata, probabilmente inevitabile dopo che la
Corte europea dei diritti dell’uomo era intervenuta, pochi giorni fa, sullo
stesso tema. Con una stretta maggioranza pare, anche la
Corte costituzionale italiana si è pronunciata sulla questione dell’ergastolo
ostativo, cioè di quel “fine pena mai” per mafiosi e terroristi che, in
mancanza di una collaborazione con lo Stato, non possono essere ammessi a
misure premio, come qualche ora o giorno fuori dal carcere. Ora, anche senza il
requisito della collaborazione, sarà possibile.
Verosimilmente ha pesato il
principio per cui le pene non possono consistere in “trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art.
27 Cost), in armonia del resto con quello transnazionale secondo cui sono
vietati “trattamenti inumani o degradanti” (art. 3 Convenzione
europea dei diritti dell’uomo).
L’elenco dei potenziali
destinatari di questa decisione fa paura. E’ una evidenza chiarissima, e di
questo argomento si fanno forza quanti denunciano lo scandalo di un
pronunciamento troppo lassista, o semplicemente criticano alla radice fondatezza,
od opportunità, della sentenza. “Stravagante”
(Luca Zingaretti del PD); “grida vendetta” (Matteo Salvini della Lega, con la
consueta chiarezza). Si ricordano le esigenze di politica criminale, si
sottolinea la preoccupazione che venga minata la lotta alla mafia e al
terrorismo, si paventa il timore di favorire la recrudescenza dei vincoli
associativi, infine ci si appella al rispetto per la memoria e il sacrificio
delle tante vittime.
In effetti, la lista degli
interessati comprende i principali boss di mafia, camorra e n’drangheta, da
Leoluca Bagarella a Giovanni Riina, dai fratelli stragisti Graviano ai casalesi
Schiavone e Zagaria, ai capi delle ‘ndrine di Gioia Tauro e via discorrendo,
sino ai brigatisti rossi Nadia Desdemona Lioce e Roberto Morandi. Responsabili
di stragi, guerre di mafia, omicidi efferati, crimini di ogni tipo. In
concreto, per dare dei numeri, 1.106 ergastolani ostativi (gran parte dei
quali, 1003, in carcere da oltre 20 anni) e potenzialmente altri, che pur
condannati a pene temporanee sono nelle stesse condizioni perché, rientranti in
categorie di soggetti ai quali diverse leggi successive al 1992 (assassinio di
Giovanni Falcone) hanno esteso quel divieto. Certamente non un piccolo numero,
e comunque personalità di eccezionale rilievo criminale.
Gli effetti della decisione per mafiosi e terroristi
Non è bastata la lettura
della decisione nella sua interezza (si conosce solo il dispositivo, non la
motivazione) per chiarire i termini della questione. La decisione riguarda solo
i cosiddetti “permessi-premio”, cioè la possibilità di uscire dal carcere
qualche ora o giorno, non altre misure penitenziarie. Se ora sarà possibile una
valutazione caso per caso, e quindi sarà autorizzato qualche permesso, in ogni
caso la concessione dovrà essere preceduta dall’accertamento di stringenti
condizioni riguardanti il grado di risocializzazione del condannato: la prova
della partecipazione al percorso rieducativo, l’esclusione della partecipazione
all’associazione criminosa, l’assenza del pericolo di ripristinare quei
vincoli.
Un bilanciamento degli
interessi, si direbbe, tra esigenze della collettività tutta
e quelle degli individui, anche se criminali sanguinari. Difficile allora, stante
quella griglia stringente, anche se in astratto non impossibile, che sia effettivamente
autorizzato ciò che era vietato per legge. Anche se tutto ciò – per trovare
conferma nei fatti - dovrà richiedere un grosso impegno a favore delle
strutture penitenziarie e giudiziarie che si occupano della esecuzione della
pena: dalle carceri, agli educatori e psicologi, ai magistrati di sorveglianza.
Piuttosto, questa vicenda
non può esaurirsi né nella denuncia del presunto scandalo legato ad una
decisione preoccupante, né nell’assicurazione circa il contenimento degli
effetti devastanti che potrebbe avere in concreto, e neppure nella mera segnalazione
di ciò che in ogni caso occorre fare oggi perché il sistema funzioni in modo
corretto e senza deviazioni.
La politica dei facili automatismi non funziona
Non può mancare una
riflessione più generale sul metodo troppo spesso prescelto dal parlamento per
affrontare la criminalità e regolare i passi dei diversi operatori che hanno il
compito di applicare la legge, dai magistrati agli operatori penitenziari
tutti.
Si preferiscono di gran
lunga gli “automatismi”, che significano in sostanza presunzioni (cioè valutazioni
anticipate) tali da limitare ogni discrezionalità e quindi da prefigurare il
giudizio specifico sul fatto. Presunzioni di ogni tipo: di pericolosità
sociale, di gravità dei fatti, di valutazione delle azioni e del grado di
responsabilità dei soggetti. Così si escludono certi benefici per determinate
categorie di condannati, si stabiliscono regole (troppo) tassative per il
calcolo delle pene, infine si preferisce innalzare regolarmente i minimi di
pena anche al di là della ragionevolezza. Ma il motivo reale è che troppo
spesso paiono inadeguate le pene - lievi - irrogate dai giudici, o non
condivisibili le decisioni, e ci si vuol garantire che ciò non accada.
Eppure la natura di questi
automatismi e il loro stesso destino come possibile strategia giudiziaria sono
assai chiari: si tratta di meccanismi necessariamente grossolani, perché
dettati per tutta la platea dei destinatari, senza considerare i casi singoli; possono
essere adatti oppure no e in questo caso non c’è possibilità di correggerli. Sarebbe
saggio limitarne molto l’uso. La realtà concreta sfugge, come un’anguilla,
dalle reti troppo fitte che vogliono inquadrarla. C’è una conseguenza
contraddittoria di questa strategia, quella di non sapersi adeguare realmente
al caso singolo. E quindi di operare scelte controproducenti nella
determinazione del trattamento, nella prevenzione, e nella difesa della
collettività, beni a cuore di tutti.
Alla base di tutto questo,
c’è spesso una sfiducia nell’azione dei magistrati, nella loro capacità di
giudizio equilibrato, e purtroppo questa riserva ha anche il suo fondamento.
Non ci sono soltanto limiti che la legge stessa impone ai giudici, come spesso
costoro denunciano a ragione. Certe decisioni (come le scarcerazioni “troppo
facili”, le condanne “eccessivamente lievi”, alcune sentenze “radicalmente
riformate”) lasciano davvero perplessi e non sono giustificate da motivi
plausibili.
Gli automatismi sono un
alibi per il parlamento e per gli stessi operatori della giustizia: si ricorre
alle presunzioni nel timore che vengano adottate decisioni poco rigorose, ma
queste – quando accadono - sono il frutto di una deresponsabilizzazione
vistosa. Sia di politici che di giudici.
Meglio un divieto fissato
per legge, che scarica la coscienza dei politici nel prendersi cura della
formazione degli operatori giudiziari e nel provvedere a renderne adeguati strutture
e mezzi. Meglio qualcuno che dica cosa fare, piuttosto che il gravoso compito
di discernere, soppesare, senza cedere ai venti della demagogia. Né quella ottusamente
repressiva (che prescinde dalle effettive responsabilità degli individui). Né
quella, di segno opposto ed ugualmente nociva, del “lassismo buonista”,
anch’essa a prescindere da ragionevoli motivi.
* Leggi La Voce di New York:
La
Consulta sull’ergastolo ostativo, una scelta che esige il miglioramento del
sistema
* Leggi La Voce di New York:
La
Consulta sull’ergastolo ostativo, una scelta che esige il miglioramento del
sistema
Qualche riflessioni per
capire la sentenza della Corte Costituzionale e la polemica che ne è seguita
bell'articolo, onesto!
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