Dietro l’accusa di stupro contro il regista Roman Polanski, autore del film
J’accuse, l’eterna questione della libertà dell’arte rispetto al giudizio sulla
persona dell’autore. La memoria non guarisce senza riparazione delle ferite. E l'arte non può giustificare nefandezze private
(ap) L’accusa di stupro mossa dall’ex attrice francese
Valentine Monnier, dopo 44 anni di
silenzio, non è soltanto la quinta denuncia di questo tipo che piove sulla
testa del regista franco-polacco Roman Polanski. Né è l’ennesimo episodio di
violenza sessuale in cui sia coinvolto un personaggio dello spettacolo. Come a
proposito del produttore cinematografico americano Harvey Weinstein, incolpato da uno stuolo di attrici, compresa la
nostra Asia Argento.
E’ un ennesimo guaio certo per Polanski, oggi 86
anni, ma non sul piano giudiziario. Non rischia di andare in carcere, perché i
fatti sono prescritti. Gli è andata peggio per un’altra violenza commessa nel
1977 ai danni di una minorenne. In America, è stato già condannato. E ora è
ricercato dalla polizia e non può rientrare nel paese. Un guaio maggiore, per
il cineasta.
Intanto lui ha messo le mani avanti negando ogni cosa, “contesto tutto”, ma, oltre alla donna, lo
smentiscono alcuni testimoni sentiti dal quotidiano francese Le Parisien, con cui l’ex modella e
attrice si è confidata, inutile rivolgersi alle autorità dato il tempo
trascorso, dato che i fatti risalgono al 1975. La Monnier andò da loro appena
fuggita dallo chalet di Gastaad in Svizzera, dove fu commesso lo stupro. La
donna “era sconvolta”, aveva “un livido sul viso”, “era stata violentata da Polanski”. Il regista reagì con la violenza a un rifiuto di lei, giovane
modella, attrice, molto bella, che aveva solo 18 anni.
Nessun legame tra loro, nemmeno una frequentazione, solo una semplice
conoscenza in occasione di una vacanza sugli sci presso una famiglia che era amica
del regista. Ma questi, al ritorno da una discesa sulla neve, chiese senza
mezzi termini di fare sesso ottenendone un rifiuto. Approfittò della cena e della
sua presenza nello chalet. La aggredì, la
riempì di botte, poi la violentò facendole subire di tutto. Infine scoppiò
a piangere implorandola di tacere, e lei lo ha fatto. Per tutto questo tempo.
Ora la donna non ha più retto. Impossibile tacere ancora. Ma perché succede
proprio ora? A convincerla a parlare, questa la sua dichiarazione, è stata
l’uscita dell’ultimo film del regista contro cui punta il dito, J’accuse, sul caso di Alfred Dreyfus, il capitano perseguitato ingiustamente nella Francia dell’800 perché
ebreo, un lavoro presentato tra le polemiche al festival del cinema di Venezia 2019
e ora in uscita nelle sale francesi. Cosa ha scatenato la reazione dunque?
La donna non ha sopportato che il regista “si paragonasse ad Alfred
Dreyfus”, vittima del famoso affaire che scosse la politica francese e
mostrò al mondo la piaga dell’antisemitismo
nella società francese del XIX secolo, e si è chiesta: “È tollerabile, con il
pretesto di un film, sentir dire J’accuse a colui che ti ha marchiato
per sempre mentre a te, vittima, è vietato accusarlo?” Fin qui, dunque la
Monnier.
Ora, proprio la commistione tra la vita privata del regista e quella
professionale, cioè tra l’uomo e la sua immagine pubblica, è stata l’argomento
polemico che, ben prima delle accuse della Monnier, ha accompagnato la
presentazione del film di Polanski a Venezia. In quel caso erano stati i
trascorsi del cineasta, a gettare su di lui delle ombre e rendere discutibile
la possibilità di partecipare alla manifestazione.
La presidente della giuria, Lucrecia Martel, non avrebbe partecipato al galà del film
“per evitare di applaudire al suo autore”. Nessun (pre)giudizio sul lavoro, ma
solo un apprezzamento (negativo) – a caldo e d’impeto – sulla persona di Polanski
in quanto implicato nelle precedenti vicende di stupro: “Rappresento donne nel mio
Paese che sono vittime di questo tipo di abusi,
per cui non mi sento di alzarmi e applaudire il film”, aggiungeva la Martel,
attirandosi accuse di parzialità e inadeguatezza a svolgere il ruolo di
presidente.
Nell’occasione veneziana, sono stati
riproposti gli atavici e irrisolti interrogativi sulla libertà dell’opera
d’arte rispetto all’eventuale riprovevolezza morale dell’autore. L’opera deve
essere distinta o no dall’uomo che la realizza? Ha dignità di circolazione anche
se a realizzarla è un soggetto per qualche motivo “indegno” eticamente o
politicamente? Si può dare spazio ad un ricercato dalla legge?
Che dire allora di Louis-Ferdinand
Céline che scrisse nefandezze antiebraiche, di Ezra Pound che esaltò il
fascismo, del filosofo Carl Schmitt, seguace di Hitler? O per arrivare all’oggi
persino del premio Nobel 2019 per la letteratura, Peter Handke, che elogiò la
pulizia etnica di Slobodan Milosevic?
Un quesito gigantesco di fronte a tanti casi simili, in
cui, nel mutare delle circostanze, l’idea di cultura è avvertita in contrasto
con le degenerazioni umane, e la purezza è oscurata dall’esecrabile. Ma, per
tornare all’ultima vicenda, nella decisione di Valentine Monnier di denunciare solo ora il suo violentatore Roman
Polanski c’è un dilemma ulteriore, forse più profondo.
Il silenzio tenuto in tutto questo tempo (per
timore, quieto vivere, tentativo di dimenticare: non importa stabilire perché)
non significa che si è dimenticato, e nemmeno che si è superato un trauma. La
memoria non si cancella se non è possibile far fronte al reale. Difficile
starsene su un albero a guardare il mondo, fuori dal tempo crudele. O accettare
zone grigie. Allora non c’è alcun ritardo nel reagire; lo stupro, come una
bomba a orologeria, attende solo il momento buono per esplodere, che arriva all’improvviso,
e può essere un qualsiasi avvenimento.
Per la Monnier questo fatto dirompente è l’inversione
dei ruoli tra carnefice e vittima; il primo libero di parlare e di essere
ascoltato (dunque creduto), la seconda, cioè lei stessa, senza voce, privata di
questo diritto, dopo aver ricevuto risposte evasive o impotenti dalle autorità.
È un capovolgimento mostratosi proprio con il film. Un abbaglio? E’ solo il
risentimento ciò porta a travisare?
La storia messa in scena da Polanski assomiglia
molto alla sua vicenda giudiziaria per come letta e giustificata dal regista,
dichiaratosi vittima di una diabolica macchinazione. Ma non è casuale o forzato
l’accostamento tra il capitano Dreyfus e il suo regista. Lo stesso Polanski ha
rivendicato l’identificazione: "In questa storia, trovo
momenti che ho vissuto anche io:
la stessa determinazione nel negare i fatti e nel condannarmi per cose che non ho fatto. La maggior parte delle
persone che mi tormenta non mi
conosce e non sa nulla del caso". Quella dell’ebreo francese
ottocentesco è la sua persecuzione e come tale è proposta al pubblico.
E si sono accorti tutti di questo forzoso
accostamento. La critica ha osservato che il film ha un impianto che si sforza
di essere classico e rigoroso, ma è più solenne che vibrante. Una sfumatura che
sta a indicare la forzatura dei toni, per motivi personali, a danno
dell’autenticità della storia. Ovvero il lavoro cinematografico è volto a
dimostrare la tesi del regista piuttosto che quella del povero capitano Dreyfus.
Nell’accusa della Monnier non si discute della libertà
dell’arte, ma del suo uso strumentale. Non è un’illazione, perché al centro
della ricostruzione sembra proprio il J'accuse del regista contro il sistema
giudiziario e l'opinione pubblica che l'hanno messo sulla griglia. Un
travestimento che utilizza le forme dell’arte.
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