A distanza di tempo la faccenda
del carcere, per Alfano Mirau, era oggetto di continue
liti con la moglie. Due mondi in conflitto dopo anni di convivenza
di Bianca
Mannu
(Tratto dal libro Da Nonna Annetta, ed. La Riflessione, 2011)
Che
mio babbo fosse stato in carcere l’ho capito parecchio tempo dopo. Due o tre
anni appresso, forse, quando la parola carcere
e il broncio delle altre parole connesse e affini cominciarono ad
affiorare dalla mia palude del non-senso. E affiorarono, perché loro due -
babbo e mamma - ripercorrevano i fatti come incalzati da un prurito doloroso
che non voleva dissiparsi.
Punteggiavano il loro parlare e riparlare con i toni, la concitazione e l’intreccio delle ipotesi e delle spiegazioni, come se quella storia non fosse mai conclusa e mai potesse aver fine.
Punteggiavano il loro parlare e riparlare con i toni, la concitazione e l’intreccio delle ipotesi e delle spiegazioni, come se quella storia non fosse mai conclusa e mai potesse aver fine.
Era
come se mamma rimproverasse a babbo di non aver cercato, inventato tutte le
trappole possibili per non incorrere in quella ventura o per uscirne indenne. E
babbo si affannava a spiegare che non c’era stata possibilità, tanto meno in
quanto lui s’era preoccupato di non coinvolgere Fortunato, il socio assente, e
la famiglia stessa di mia madre, i nonni Senis, in qualcosa di cui gli sfuggiva
la dimensione.
In
poche parole era accaduto questo. Alla fine della stagione del raccolto, il
camion della Viniebib riconduceva da Gesòli a Vineanova mio babbo, alcuni
braccianti e l’aiuto-meccanico, la cui aggiuntiva assunzione era stata necessitata
dalla fretta di ultimare la trebbiatura a causa del tempo minaccioso di
temporali intanto che le biche del grano erano depositate sull’aia. Nello
stesso camion erano state caricate le derrate avute come pagamento del lavoro
svolto nell’intero ciclo da tutto il gruppo di persone, compreso il socio –
assente nella circostanza e proprietario delle macchine usate per la
trebbiatura.
Una
pattuglia di Finanzieri, un
milite e un graduato, aveva bloccato, perquisito e requisito tutto il carico,
camion compreso. Contestava al gruppo di praticare la borsa nera. E poiché mio
padre si era dichiarato temporaneo responsabile delle derrate e del loro
trasporto, il graduato della pattuglia gli contestò la colpa di essere il capo
dei borsaneristi. La presenza, fra le derrate del carico, di alcune scatolette
di fiammiferi e due pezzi di sapone – dono di Nonna Annetta per mia mamma -
sembravano avvalorare quell’accusa. Tanto più che babbo, conoscendo per cattiva
fama l’avidità dell’uomo e non volendo danneggiare la generosità dei suoceri
Senis, si era ben guardato di fare il loro nome, quali donatori della “merce”
incriminata. Fu denunciato in regime di flagranza di reato e condotto subito
nel carcere di Cagliari, in attesa di giudizio.
Oggi
posso immaginare quale sia stato lo shock subito da una persona corretta e
niente affatto avida o collusa come Alfano Mirau. Quanto si sarà sentito
calpestato nel cuore della dignità e dell’onore, lui, che si sentiva ricco solo
di quelli. Inoltre, finire in carcere con quella motivazione e in tempo di
guerra non era uno scherzo. Con la confusione che regnava nel Paese c’era il
rischio di dovervi soggiornare per un pezzo senza processo e, perciò, senza
avere la possibilità di dimostrare la propria innocenza o avanzare tesi di
difesa.
L’angoscia
di Alfano, riaffiorante nei suoi discorsi con Domitilla, era portata agli
estremi dal fatto di essere stato povero di denaro, di non aver potuto
richiedere tempestivamente il patrocinio di un avvocato, di aver perso anche il
nutrimento annuale di base per la sua famiglia e di restare chiuso in carcere a
subire l’aggressione della borsa nera e del lerciume interni. A tutto ciò si
era aggiunto il voltafaccia e il cinismo del socio, il quale non aveva invece
alcuna voglia di chiarezza, per via di certi altri suoi traffici e del suo
passato prossimo fascista, non troppo limpido.
Anzi,
a situazione superata, pare avesse preteso che mio padre lo indennizzasse per
le perdite subite “a causa della
mancanza di c…”, dimostrata nel
frangente. Era questa la sua traduzione per l’incapacità di Alfano Mirau di
corrompere i militi, e stabilire con loro una trattativa. E alludeva al genere
di traffico che il sottufficiale della finanza organizzava in proprio, ma del
quale Alfano sapeva solo per sentito dire. Il socio insisteva:“Certo che mi devi indennizzare, dato che ti
permetti il lusso di ignorare in che modo gira il mondo!”.
Babbo
raccontava poi di averlo guardato come si guarda un verme e di non aver mai più
scambiato parola o saluto con quell’individuo.
Stando
a ciò che ho gradatamente capito da adulta, è che un certo atteggiamento greve
e offensivo era emerso, più o meno velatamente, anche in famiglia, “non hai faccia, non hai saputo venire a
patti!”, segnatamente da mamma. Ciò che per babbo risultava intollerabile.
A
parziale attenuazione dell’ingiuria materna bisogna sottolineare il fatto che
mamma si era trovata sola nell’affrontare una situazione molto difficile e per
lei inedita; e che per retaggio educativo continuava a giudicare i fatti che la
coinvolgevano mediante i canoni della preminenza degli interessi familiari
diretti rispetto alle regole civili. Proprio all’opposto delle norme morali
sottese ai comportamenti del marito.
Era
forse questa la ragione per cui marito e moglie continuavano a dibattere su un
evento ormai superato e andato, per così dire, a buon fine. Infatti babbo era
stato prosciolto da ogni addebito e accusa dopo due mesi. Ma non tornò mai in
possesso dei suoi beni, perché i militi e i loro innominati complici avevano
fatto sparire tutto quanto, tranne il camion, tornato in possesso della ditta
Viniebib.
In quella circostanza, nella famiglia
Mirau, non solo due etiche erano entrate in rotta di collisione, ma due mondi,
incarnati in persone destinate a vivere insieme scontrandosi e soffrendo, quasi
giorno per giorno, a ogni discrimine imposto dalla vita.
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