Mi muovo con l’aiuto della memoria, senza poter contare su
olfatto, gusto e tatto; una sorta di occhio in più per vivere, o solo
sopravvivere
di Bianca Mannu
Mi
muovo con la vista della memoria? Il mio occhio interno arriva, indipendente e
solitario, fino al fondo delle mutande mentali di chi mi parla. E non v'indugia
più del tempo che basta a far ben funzionare il quadrante della mia animalità.
Con considerevole precisione, esso riesce a tradurre i suoni in percezioni
tattili, olfattive e gustative, prontamente organizzate in fondato giudizio di
valore.
Gemma
dice che ho l'ipertrofia del terzo occhio e che, perciò, sono moralista e
insocievole. E' vero, in un certo senso. Sono state la mia opacità percettiva
verso i colori e i suoni e l'opposta ipertrofia olfattiva, gustativa e tattile a
sollecitare lo sviluppo dell'occhio interno. Che è una specie di complesso e
sensibile rélè terminale, situato nella giuntura mentale delle direttrici
sensorie.
Quando
l'accelerazione impressa al sistema è massima, il rélè, quello mio, non riesce
a funzionare, perché s'ingrippa o fibrilla. Si ribella alla rozza
semplificazione che l'alta velocità richiede. E' uno strumento complesso e
insieme delicato. Non di quelli di serie, che si vendono ai grandi magazzini!
In
tali casi, dunque, la sensibilità, giungendo allo stato bruto e alla grossa, fa
scattare le lamine d'alarm. Proprio così, scritto in quell'inglese universale
che la logica utilizza per designare gli U.F.O. sensitivi. Ed è in tali
congiunture che il reale, il possibile e l'assurdo fanno blocco.
Le
conseguenze? E’ proprio il mio cuore che si mette prima a martellare e poi
s'inceppa; sono proprio i miei visceri a contrarsi, il mio sudore a sgorgare, i
miei muscoli a paralizzarsi, il mio corpo ad assumere una postura da feto, per tutta
l'eternità necessaria per vivere tutti i gradi e le turpitudini della
sofferenza e della paura. Non possibili o future, ma reali, queste, adesso. Finché il corpo, il mio corpo smette di contorcersi nel
blackout d'ogni percezione.
Infatti
io non ricordo che il prima e il dopo. E questo è come un risveglio ai dolori
sommessi d'una vita a regime ridotto. Il tempo dell'incoscienza, ovviamente,
non mi appartiene, benché mi concerna. Perciò lo qualifico puntiforme, come
l'ente geometrico privo di dimensioni.
Non
posso asserire di averne conoscenza diretta o sperimentale. Caso mai posso
esercitare su di esso la mia immaginazione. Usandola, mi capita di pensare il
mio tempo en block, come un
ente solido, ma poroso: un groviera o una spugna. I buchi si denotano solo per
contrasto: acceso/spento, chiaro/scuro, caldo/freddo, pieno/vuoto. Mai, per me
si raffigurano in termini di dimensione, Naturalmente è lei che gestisce, per
dir così, i miei buchi. D'accordo, d'accordo: non c'è niente di naturale in
ciò. E posso anche convenire che questa sorte le sia divenuta gravosa.
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