In America una «presunzione di pericolo» contro i neri genera violenza. Ma pregiudizi sono alla base anche del populismo: nei confronti di chiunque sia “diverso”
(Angelo Perrone) Sono rimasti impressi nella memoria i
video che ritraggono le brutalità della polizia in America. Gesti sfacciati e
tracotanti, senza timore d’essere ripresi, quasi contando sull’impunità di
gregge. Altro che normali controlli o arresti legali. Violenze ingiustificate
nei confronti di semplici sospettati di qualche illecito. Purché neri, si
intende.
Lungo l’elenco. Solo da ultimo, George Floyd,
l’afroamericano soffocato a Minneapolis dal ginocchio di un poliziotto. Maurice
Gordon, che due giorni prima venne crivellato da sei colpi di pistola sparati
da un agente che lo aveva fermato per eccesso di velocità. Rayshard Brooks, un
27enne afroamericano sorpreso ad Atlanta a dormire nel parcheggio di un
ristorante, raggiunto alla schiena da tre colpi di pistola sparati dalla
polizia mentre fuggiva dopo aver opposto resistenza.
L’America vive momenti difficili e dolorosi, per una
crisi dai tanti volti (il razzismo, la pandemia da Covid-19 e la disoccupazione
economica), resa drammatica e senza sbocchi dall’incapacità di Donald Trump a
governare situazioni complicate.
Le diseguaglianze razziali hanno implicazioni sul
versante dell’ordine pubblico, e sanitario da Covid-19. È un fatto che la minoranza
di colore subisca maggiormente la violenza della polizia e la pandemia. E’ come
se, nei confronti dei neri, l’azione della polizia, la disoccupazione e il
contagio provocassero più danni.
Ci sono conferme statistiche? Davvero negli Usa la
polizia uccide più neri che bianchi? Non esistono informazioni ufficiali
aggiornate. Sul sito del Bureau of Justice Statistics (Bjs), il
reparto di statistica del dipartimento della Giustizia, sono pubblicati
soltanto dati a cavallo tra il 2015 e il 2016, dopo un vuoto dal 2012, e prima
del semplice annuncio che nel 2019 vi sarà una nuova raccolta dati con diversa
metodologia. Come riporta il Washington Post, anche il FBI ammette di non
disporre di dati completi.
Fonti non governative invece documentano il numero
delle morti per mano della polizia sino al 2019. L’archivio del Washington Post
tiene traccia di tutti gli omicidi commessi da poliziotti in servizio con armi
da fuoco (quindi il caso George Floyd non sarebbe incluso) a partire dal 2015.
Si registra la costanza di circa 1000 persone uccise ogni anno, in analogia con
quanto indica il Mapping Police Violence, un sito di ricercatori e attivisti
che considera un ventaglio più ampio di casi (omicidi di poliziotti in servizio
e no, con o senza armi da fuoco).
La conclusione è che i bianchi uccisi sono circa il
40% del totale, contro un 25% di persone di colore. Tuttavia la statistica non
può essere letta soltanto in termini assoluti, occorre considerare la
popolazione globale (bianca o nera). Le morti dei neri (14% circa della
popolazione Usa) sono il 25% del totale. Un nero ha dunque una probabilità maggiore
di morire per mano della polizia rispetto ad un bianco. Le vittime di colore
sono infatti 31 per milione di abitanti, contro 13 per milione tra i bianchi.
Essere nero nella società americana ha effetti
“sproporzionati” anche di fronte alla pandemia da coronavirus. «I neri sono più
colpiti da diabete, malattie cardiovascolari e polmonari, tutte patologie
figlie delle diseguaglianze. Oggi queste si manifestano in modo dirompente con
l’emergenza coronavirus», ha spiegato Jerome Adams, dirigente dello United
States Public Health Service Commissioned Corps. Il Covid-19 sta uccidendo più
persone di colore che altri. Il virus incide di più sulla popolazione nera.
Per quanto anche qui non vi siano statistiche
ufficiali, stante l’atteggiamento riduttivo dell’amministrazione Trump rispetto
al virus, alcuni dati sono significativi. Secondo il New York Times, che cita
fonti pubbliche, a Chicago il 70% di decessi si riscontra tra la popolazione
nera che però rappresenta solo il 33% del totale. Nell’Illinois il 41% di morti
è tra i neri, ma costoro sono soltanto il 14% della popolazione. In Carolina
del Nord, i neri deceduti di Covid-19 sono il 31% del totale, benché
rappresentino il 22% della popolazione. In Luisiana, si verifica il 70% di
decessi tra i neri che sono solo il 33% del totale.
La brutalità della polizia, le malattie, da ultimo la
pandemia hanno dimostrato di colpire la popolazione di colore in maniera
notevole. Ci sono gli stessi problemi di fondo per situazioni diverse. Un
soggetto nero ha le stesse (maggiori) probabilità di morire di violenza in
strada che di Covid. «Le probabilità che io muoia ucciso da un poliziotto o per
il Covid sono le stesse», ha dichiarato al New York Times Mike Griffin, community
organiser nero, che ha partecipato alle proteste per l’uccisione di George
Floyd nelle strade di Minneapolis.
Le proteste nascono da una percezione di frustrazione
e disperazione che affonda le radici nella storia della segregazione razziale.
Il grande male, che viene da un irrisolto confronto con il passato, è
un’ideologia diffusa. E’ il pensiero di una supremazia bianca nei confronti dei
neri in termini di intelligenza, abilità e dunque legalità. Le leggi denominate
Jim Crow, emanate nei singoli Stati tra il 1876 e il 1964, furono espressione
della stabilizzazione normativa della segregazione nelle scuole, nei luoghi
pubblici, nei servizi, sulla base del principio “separati ma uguali”.
Una normativa legalmente superata solo tra il 1954 e
il 1965 con le sentenze della Corte suprema e le leggi federali, Civil Rights
Act e Voting Rights Act. Ma non bastano queste modifiche, piuttosto recenti,
per rimuovere il substrato culturale della segregazione, ovvero la “presunzione
di pericolo e di colpa” posta a carico della comunità di colore.
Non importa quanti sforzi fai, quale sia la tua
cultura, la tua azione sociale, devi comunque confrontarti con questa
presunzione, ed è un percorso in salita, spesso sei destinato a perdere la
battaglia. Tutto ciò rende altamente probabile che l’incontro con la polizia abbia
un epilogo tragico, come dimostrato dai casi Floyd, Gordon, Brooks.
Il razzismo diventa istituzionale perché radicato
culturalmente e spesso persino inconscio. Si è razzisti senza saperlo, senza
esserne consapevoli. Un’affermazione che può sorprendere, ma che deriva, come
spiega Eduardo Bonilla-Silva, professore afro-portoricano di sociologia alla
Duke University, nel suo libro Razzismo senza razzisti (2003), da «una forma di
daltonismo razziale», il colorsblind racism, per cui la maggior parte dei
bianchi continua ad utilizzare meccanismi sociali sostanzialmente ineguali
nonostante sia convinta che «la razza non sia più rilevante» nella scalata
sociale.
Non è una questione che riguardi soltanto l’America.
In Europa e non solo, il razzismo assume anche il volto della discriminazione
nei confronti di altre categorie di persone: lo straniero, l’immigrato, colui che
professa un’altra religione o manifesta un diverso orientamento sessuale.
Chiunque sia “diverso” è in qualche modo pericoloso. Il
paradosso è che questa etichetta – motivo di radicali contrasti politici - è
tremendamente utile nella propaganda. I populisti hanno bisogno della “diversità”
altrui, se ne servono per trarne argomenti polemici. Non conta la tipologia
dell’avversario, basta che ce ne sia uno, che venga additato all’opinione
pubblica e che questa ci creda, perché non aspetta altro per scaricarvi le sue
inquietudini. Un feticcio che dà enfasi ai problemi reali, stravolgendoli, e
coagulando consensi.
Donald Trump ha vinto le elezioni con la criminalizzazione
di questo nemico che mette in pericolo le conquiste americane. Sino al punto
estremo: alzare muri contro i messicani; in genere contrastare gli stranieri. Ora
che, con la pandemia, il nemico non è più fisico, e collocabile in un luogo
definito dal quale difendersi, non si sa più che fare e l’atteggiamento è
oscillante ed incerto.
Matteo Salvini ha costruito la sua propaganda sulla
stessa logica di contrapposizione propria di tutti i populisti. Salvo cambiare avversari
secondo convenienza, con spregiudicatezza. Prima, all’epoca della Lega
regionalista, ponendosi contro meridionali e Roma “ladrona”; ora, diventata
nazionalista e sovranista, contro la troika economica europea, le cancellerie
straniere, le istituzioni sovranazionali, quel mondo che è così perfido verso
gli italiani.
I 5Stelle hanno adoperato lo stesso schematismo
“buono-cattivo”, cambiando solo soggetti. Con le insegne – in sé giuste, ma
declinate retoricamente – dell’onestà e incorruttibilità, hanno radicalizzato la
contrapposizione, ponendosi come movimento anti-sistema. Contro la casta
dunque, le istituzioni di qualunque tipo, in una parola contro “l’altro da sé”.
Salvo ritrovarsi in un cul de sac: l’impossibilità di “aprire come una scatola
di sardine» il parlamento nel quale sedevano in così gran numero senza sapere
come fare: privi di storia, radici per agire, competenza per decidere.
La comunità nera non è più sola dunque, non perché il
razzismo sia stato vinto, e sia prevalso il buon senso. Ha solo trasmesso il
testimone della discriminazione e del pregiudizio ad altri portatori di
disordine sociale.
Il nazionalismo esasperato, il sovranismo, il
populismo sono nel mondo le molteplici facce di un “razzismo“ declinato secondo
le circostanze. Alimentato da un senso di minaccia ai valori tradizionali della
sicurezza e tranquillità. Non importa che il pericolo provenga da persone
fisiche ed entità reali, sia effettivo o solo supposto. È come se ci fosse un
Covid sociale sempre in azione, pronto ad aggredirci, stravolgendo consuetudini,
sistemi di vita.
Nessuno scampo. Non è praticabile una politica di
integrazione né il superamento delle difficoltà. L’unica cosa che si possa fare
è rinchiudersi nella propria nicchia, cercare un rifugio, porsi al riparo dai
pericoli che minacciano il (fragile) benessere e la (relativa) tranquillità.
Tracciare confini come muri, impermeabili al dialogo e allo scambio. Finalmente
sicuri, seppure tragicamente in compagnia delle paure da cui non siamo riusciti
a liberarci.
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