(Una riflessione più ampia su Critica liberale 19.11.24, nel testo "Per chi suona la campana?")
(Angelo Perrone) Sergio Mattarella ha parlato ai giovani del suo impegno di capo dello Stato, un’esperienza lunga, due mandati. Ha usato la metafora dell’«arbitro fuori dalla contesa politica», con un ruolo attivo però, pronto a intervenire «in casi di crisi di sistema», per un’idea di «Paese senza poteri contrapposti, né chiusi in sé stessi come fortilizi».
Poi ha aggiunto: «Ho promulgato leggi che ritenevo sbagliate o inopportune, ma erano state votate dal Parlamento e non c’erano vizi palesi di incostituzionalità, era mio dovere farlo».
A poche ore di distanza, sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, alla presentazione delle nuove auto blindate dalla polizia penitenziaria, se n’è uscito con la frase shock: «Intima gioia non lasciare respirare i detenuti nell’auto della penitenziaria».
Le parole sono pietre, muovono azioni, esprimono convinzioni, e incarnano mondi. L’idea che un rappresentante delle istituzioni, per di più la Giustizia, esprima “intima gioia” all’idea che i detenuti non respirino in un’auto della polizia, provandone perciò soddisfazione, lascia increduli e sconcertati.
Sono parole che suggeriscono una visione disumana e punitiva del sistema penitenziario.
Altro che rispetto dei diritti umani e finalità rieducativa della pena, princìpi insegnati già nei primi anni di Giurisprudenza. Trapela un orizzonte, mentale e programmatico, inquietante.
La frase usata da Mattarella nell’incontro con i giovani editori è assai più che l’indicazione del ruolo costituzionale del presidente. Mostra la trama dei rapporti doverosi tra gli organi dello Stato in un sistema di democrazia liberale. Ciascuno consapevole del proprio compito e rispettoso di quello degli altri. Un cammino mai facile, spesso irto di insidie.
Non dovrebbe stupire, per la verità, la citazione della figura dell’arbitro. La metafora del direttore d’orchestra fa pensare allo spirito originario della Carta costituzionale.
Senonché, è la confidenza personale, aver dovuto promulgare leggi non condivise, a rivelare ad aggiungere un tratto. L’amarezza di aver firmato leggi sbagliate per il Paese rivela la sostanza del compito, e chiarisce le difficoltà incontrate passando dall’astrattezza dei principi alla concretezza della realtà.
L’essere arbitro è costantemente messo alla prova delle decisioni che non si condividono ma che devono essere accolte lo stesso, perché democraticamente adottate. Il rispetto del ruolo porta a un esito amaro e paradossale, ma necessario nello Stato di diritto.
In un contesto storico che non apprezza l’indipendenza degli organi dello Stato né il pluralismo (si pensi agli attacchi alla magistratura e al diritto d’informazione), sembra anomalo che non si condividano decisioni del governo, per quanto approvate dalla sua maggioranza.
Il mantra, errato, è l’illegittimità del dissenso in questi casi, con il solito ritornello: non sono stati eletti, lascino gli incarichi, si facciano votare. L’adesione incondizionata alla volontà maggioritaria è ciò che ci si attende.
I giudici che non convalidano i fermi dei migranti sono spregiativamente dei comunisti, “toghe rosse”, che complottano contro il governo, agiscono per motivi politici o chissà cos’altro. In realtà si chiede di applicare la legge come conviene che si faccia, non come è corretto secondo i principi.
Il pensiero è che la magistratura abbia il ruolo di tutelare il potere, non quello di garantire i diritti. Sono su questa linea i progetti di riforma costituzionale sulla giustizia, che mirano ad accrescere il controllo sulla magistratura e a svilirne le funzioni.
Ma l’idea retrostante, più perniciosa, attiene alla concezione stessa dello Stato e al rapporto con la sovranità. È un concetto opposto a quello esposto da Mattarella: la concezione unitaria del popolo, identificato infine nella sua maggioranza, sospinta dal capo carismatico, e rappresentato da una sola voce.
Siamo agli antipodi del sistema costituzionale liberale, quello pensato dai padri fondatori, le istituzioni, con ruoli diversi, anche di controllo reciproco, sono tutte forme legittime della rappresentanza popolare. Perché il popolo è plurale, è l’insieme di tutti, maggioranza e opposizione, partiti, associazioni e sindacati, un mondo composito a cui si contribuisce con pari dignità e gli stessi diritti.
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