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giovedì 17 ottobre 2013

Amnistia, o riforme per la giustizia




 (ap) Ancora si parla di amnistia e indulto in questo paese? Sarebbe il 36° provvedimento di questo tipo nel solo dopoguerra. In media, uno ogni due anni, l’ultimo adottato nel 2006. Non esiste altra via di uscita di fronte al disumano sovraffollamento nelle carceri? 
Forse, dovrebbe essere ancora possibile una riflessione serena su questo spinoso argomento senza i toni della retorica, e della polemica politica.
Il ricorso a manovre eccezionali perde la sua valenza giustificativa quando viene invocato con tanta allarmante frequenza. Servono domande sulle cause profonde di questa situazione e sulle possibili soluzioni. Nell’immediato certo, ma anche a lungo termine.
Verrebbe da osservare che, se insufficienti, basterebbe semplicemente costruire nuovi istituti, sempre che il sistema penitenziario di un paese civile sia ritenuto meritevole di investimenti. O che, già da subito, vi sono immobili di proprietà pubblica (come certe vecchie caserme) non utilizzati.


Al di fuori del contingente, emerge il più grave problema del rapporto tra sanzione penale e detenzione. I provvedimenti di clemenza (concepiti per ragioni di opportunità politica e di pacificazione sociale) sono diventati strumenti impropri per far fronte alle situazioni più critiche del sistema giustizia, alle emergenze che inevitabilmente ne derivano. In assenza di una gestione complessiva dei problemi, sono un debole palliativo, e lo stesso proposito dello sfollamento delle carceri risulta vanificato.
Gli effetti deflattivi vengono riassorbiti in circa due anni, i soggetti scarcerati sono successivamente riarrestati in una percentuale troppo elevata, in poco tempo si ricrea quella situazione emergenziale che si era creduto di eliminare. A scapito dunque anche delle stesse condizioni di vita dei detenuti.
I provvedimenti di clemenza (diventati regola di intervento dello Stato per calmierare i flussi della popolazione carceraria) finiscono per assumere un significato di rinuncia dello Stato a far valere i principi del suo ordinamento, e il rispetto della legge predeterminata. Una strada che conduce al declino della certezza della pena di fronte alle difficoltà pratiche di applicarla. Con effetti devastanti sull’esigenza di rassicurare la collettività circa le condizioni di legalità del vivere civile.


Non c’è rimedio possibile e duraturo alle questioni di sovraffollamento senza un ripensamento delle ragioni della sanzione penale e delle sue modalità di applicazione, mediante soluzioni nuove, più adeguate ai tempi, per un efficace ripristino della legalità violata.
Il sovraffollamento carcerario risente delle contraddizioni della politica legislativa repressiva che oscilla tra crescita oltre misura dell’ambito delle fattispecie penali (con incremento anche delle carcerazioni spesso obbligatorie) e provvedimenti, di segno opposto, di cancellazione dei reati e delle pene attraverso i provvedimenti di clemenza.
Troppo spesso la sanzione penale è utilizzata come risposta privilegiata dello Stato rispetto alle più svariate situazioni di allarme sociale, in luogo di altri meccanismi (di minore valore simbolico ma) più applicabili ed efficaci, che però, per essere adottati, impegnerebbero maggiormente l’efficienza della macchina pubblica. Ne consegue periodicamente la strada della “clemenza” di fronte a trattamenti umani non dignitosi.
Appare evidente che l’emergenza non può giustificare la pigrizia nell’affrontare i nodi irrisolti della giustizia penale, che concernono proprio il modo di concepire la sanzione penale in uno Stato moderno, e dunque la stessa carcerazione, oltre che i meccanismi processuali che ne rallentano oltre misura e ragionevolezza la sua applicazione.


In tema di sanzioni, diventa imprescindibile ricondurre la sanzione penale al ruolo di misura estrema rispetto alla violazione delle leggi, e, nell’ambito di questa impostazione, predisporre una saggia e intelligente differenziazione delle sanzioni di natura penale, privilegiando ogni possibile, ed utile, misura alternativa o sostitutiva della più grave detenzione carceraria anche in via cautelare.
Ritardi inspiegabili si frappongono al progetto di superare la tradizionale ripartizione tra pene detentive e pecuniarie, affidando il ruolo cautelare o repressivo ad altre misure che, nel concreto, rispetto alle dinamiche della società moderna, meglio possono garantire il perseguimento dei fini che si propongono di realizzare.
Solo un esempio. Proprio la vicenda del condannato eccellente per frode fiscale, rende evidente che non già la sanzione penale del carcere, in concreto non operante, quanto la misura interdittiva dei pubblici uffici rappresenti, in questa situazione, la sanzione di maggior rilievo pratico.


Così, abbandonando ogni miopia legislativa, la concezione della pena detentiva come extrema ratio dovrebbe far prevedere un ventaglio di possibili sanzioni, sia prima che dopo il processo, diverse da quella. Dalle misure interdittive a quelle patrimoniali, da quelle risarcitorie del danno (verso le parti offese) a quelle riparatorie verso l’intera comunità rispetto all’illegalità provocata (come le attività gratuite socialmente utili).
Un disegno di politica giudiziaria che avrebbe una valenza di ampio respiro sociale, diretto a favorire la riconciliazione nel piccolo tra la vittima e il suo carnefice, e in genere tra il singolo e la collettività alla quale appartiene; ad eliminare la lesione inferta al bene comune tutelato dalla norma, finalmente in una dimensione davvero rieducativa della pena e dunque di ricomposizione del tessuto sociale ferito e lacerato.
Il sovraffollamento nelle carceri dovrebbe diventare occasione di una discussione sulla funzionalità del sistema penale di un paese moderno. A condizione che il tema dell’amnistia (dal greco amnestìa-dimenticanza) non equivalga, alla fine, a dimenticanza dei problemi di fondo della giustizia.



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