(ap) Ancora si parla di amnistia e indulto in questo paese? Sarebbe il 36° provvedimento di questo tipo nel solo dopoguerra. In media, uno ogni due anni, l’ultimo adottato nel 2006. Non esiste altra via di uscita di fronte al disumano sovraffollamento nelle carceri?
Forse, dovrebbe essere ancora possibile una riflessione serena su questo spinoso argomento senza i toni della retorica, e della polemica politica.
Il ricorso a
manovre eccezionali perde la sua valenza giustificativa quando viene invocato
con tanta allarmante frequenza. Servono domande sulle cause profonde di questa
situazione e sulle possibili soluzioni. Nell’immediato certo, ma anche a lungo
termine.
Verrebbe da
osservare che, se insufficienti, basterebbe semplicemente costruire nuovi
istituti, sempre che il sistema penitenziario di un paese civile sia ritenuto
meritevole di investimenti. O che, già da subito, vi sono immobili di proprietà
pubblica (come certe vecchie caserme) non utilizzati.
Al di fuori
del contingente, emerge il più grave problema del rapporto tra sanzione penale
e detenzione. I provvedimenti di clemenza (concepiti per ragioni di opportunità
politica e di pacificazione sociale) sono diventati strumenti impropri per far
fronte alle situazioni più critiche del sistema giustizia, alle emergenze che
inevitabilmente ne derivano. In assenza di una gestione complessiva dei
problemi, sono un debole palliativo, e lo stesso proposito dello sfollamento
delle carceri risulta vanificato.
Gli effetti deflattivi
vengono riassorbiti in circa due anni, i soggetti scarcerati sono successivamente
riarrestati in una percentuale troppo elevata, in poco tempo si ricrea quella
situazione emergenziale che si era creduto di eliminare. A scapito dunque anche
delle stesse condizioni di vita dei detenuti.
I
provvedimenti di clemenza (diventati regola di intervento dello Stato per
calmierare i flussi della popolazione carceraria) finiscono per assumere un
significato di rinuncia dello Stato a far valere i principi del suo
ordinamento, e il rispetto della legge predeterminata. Una strada che conduce
al declino della certezza della pena di fronte alle difficoltà pratiche di
applicarla. Con effetti devastanti sull’esigenza di rassicurare la collettività
circa le condizioni di legalità del vivere civile.
Non c’è
rimedio possibile e duraturo alle questioni di sovraffollamento senza un
ripensamento delle ragioni della sanzione penale e delle sue modalità di
applicazione, mediante soluzioni nuove, più adeguate ai tempi, per un efficace
ripristino della legalità violata.
Il
sovraffollamento carcerario risente delle contraddizioni della politica
legislativa repressiva che oscilla tra crescita oltre misura dell’ambito delle
fattispecie penali (con incremento anche delle carcerazioni spesso
obbligatorie) e provvedimenti, di segno opposto, di cancellazione dei reati e
delle pene attraverso i provvedimenti di clemenza.
Troppo
spesso la sanzione penale è utilizzata come risposta privilegiata dello Stato rispetto
alle più svariate situazioni di allarme sociale, in luogo di altri meccanismi (di
minore valore simbolico ma) più applicabili ed efficaci, che però, per essere
adottati, impegnerebbero maggiormente l’efficienza della macchina pubblica. Ne consegue
periodicamente la strada della “clemenza” di fronte a trattamenti umani non
dignitosi.
Appare evidente
che l’emergenza non può giustificare la pigrizia nell’affrontare i nodi
irrisolti della giustizia penale, che concernono proprio il modo di concepire
la sanzione penale in uno Stato moderno, e dunque la stessa carcerazione, oltre
che i meccanismi processuali che ne rallentano oltre misura e ragionevolezza la
sua applicazione.
In tema di
sanzioni, diventa imprescindibile ricondurre la sanzione penale al ruolo di
misura estrema rispetto alla violazione delle leggi, e, nell’ambito di questa
impostazione, predisporre una saggia e intelligente differenziazione delle
sanzioni di natura penale, privilegiando ogni possibile, ed utile, misura
alternativa o sostitutiva della più grave detenzione carceraria anche in via
cautelare.
Ritardi inspiegabili
si frappongono al progetto di superare la tradizionale ripartizione tra pene
detentive e pecuniarie, affidando il ruolo cautelare o repressivo ad altre
misure che, nel concreto, rispetto alle dinamiche della società moderna, meglio
possono garantire il perseguimento dei fini che si propongono di realizzare.
Solo un
esempio. Proprio la vicenda del condannato eccellente per frode fiscale, rende
evidente che non già la sanzione penale del carcere, in concreto non operante,
quanto la misura interdittiva dei pubblici uffici rappresenti, in questa
situazione, la sanzione di maggior rilievo pratico.
Così,
abbandonando ogni miopia legislativa, la concezione della pena detentiva come extrema ratio dovrebbe far prevedere un
ventaglio di possibili sanzioni, sia prima che dopo il processo, diverse da
quella. Dalle misure interdittive a quelle patrimoniali, da quelle risarcitorie
del danno (verso le parti offese) a quelle riparatorie verso l’intera comunità rispetto
all’illegalità provocata (come le attività gratuite socialmente utili).
Un disegno
di politica giudiziaria che avrebbe una valenza di ampio respiro sociale,
diretto a favorire la riconciliazione nel piccolo tra la vittima e il suo
carnefice, e in genere tra il singolo e la collettività alla quale appartiene;
ad eliminare la lesione inferta al bene comune tutelato dalla norma, finalmente
in una dimensione davvero rieducativa della pena e dunque di ricomposizione del
tessuto sociale ferito e lacerato.
Il
sovraffollamento nelle carceri dovrebbe diventare occasione di una discussione sulla
funzionalità del sistema penale di un paese moderno. A condizione che il tema
dell’amnistia (dal greco amnestìa-dimenticanza)
non equivalga, alla fine, a dimenticanza dei problemi di fondo della giustizia.
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