di
Marina Zinzani
(Commento di Angelo Perrone)
(ap) Una storia che oscilla
tra la passione e il ridicolo, tra l’inseguimento disperato di un sogno e la follia.
Thomas Mann scrisse "La morte a Venezia" nel 1912 al ritorno da un viaggio nella
città lagunare. Uno scrittore tedesco in vacanza vede dalla finestra del suo
albergo un ragazzo polacco e rimane fulminato dalla sua bellezza. Nasce morbosa
una dipendenza pur solo platonica da quell’immagine, che comporterà uno stravolgimento
della vita ordinata e borghese dell’uomo, sino alla morte, mentre una epidemia
di colera colpisce inesorabile la città. Tra vita e arte, in un ambiente
languido e decadente, è la prima a sopravvivere: l’arte si smarrisce di fronte
alla concretezza della realtà. Impossibile cogliere la bellezza.
Guardarsi allo specchio e
vedere un altro.
Abbandonare le certezze
rassicuranti.
Esplorare strade fino a
poco tempo prima impensabili.
E’ l’ultimo alito della
vita, quello che cerca di respirare Gustav Von Aschenbach, in una Venezia
malata e decadente.
E mentre la morte si fa più
vicina, il suo corpo diventa l’involucro di un’anima che si risveglia. Un’anima
che si è persa, pensano gli altri.
Il risveglio ha il volto di
Tadzio, la bellezza greca, forse la disperata ricerca della giovinezza perduta.
La bellezza come àncora di salvezza.
E’ malinconica e straziante
la fine di Von Aschenbach, vestire abiti grotteschi, inadeguati, per cogliere anche
solo lo sguardo del ragazzo.
La sensazione che ci lascia
Thomas Mann è qualcosa di sconvolgente, assurdo, insensato.
Eppure sa di vita, vita
vera, oltre ogni maschera.
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