di Giovanna
Vannini
Inverno, schiuma bianca, mare arretrato, sabbia:
levigata dalla onde sulla battigia, smossa dove io siedo. Ho camicia lunga, un
gilet di lana e i pantaloni arrotolati alle caviglie. Scalzi i piedi. Siedo con
le gambe piegate, i palmi delle mani appoggiati sulla sabbia umida.
Il mio sguardo non volge al mare ma a te. A te che mi chiami, mi dici, rido. Bianco e nero, foto di altri tempi. Ma i ricordi hanno colore?
Il mio sguardo non volge al mare ma a te. A te che mi chiami, mi dici, rido. Bianco e nero, foto di altri tempi. Ma i ricordi hanno colore?
Quando ho ritrovato questo scatto nel cassetto del
comodino di Geltrude, mi sono fatto rosso in volto. Il rosso è arrivato dopo
che il cuore aveva spostato i suoi battiti nel collo. Mi sono seduto sul letto.
La foto tra le mani, le gambe che tremavano. Poi, ho chiuso gli occhi e sono
tornato a quella giornata, provando a rivedermi, a risentirmi, con la testa in
capelli, col sorriso che mi agguantava il volto e quella irrefrenabile voglia
di trasgredire che anche quel pomeriggio mi aveva preso in ostaggio, facendomi
togliere il giubbotto, le scarpe, i calzini, bagnare i piedi nel mare di
febbraio. Il minimo quello, di ciò che di lì a poco avrei miseramente,
caparbiamente, fatto.
Quando ho riaperto gli occhi il volto della mia
Geltrude in cornice, mi guardava con curiosità, la stessa di ogni rientro a
notte fonda, di ogni frase rimessa insieme alla rinfusa perché le scuse erano
da tempo terminate.
Quando ero in quella foto lei di me ignorava, io di
lei non immaginavo.
Ma lo stesso mare, la stessa sabbia e non l’inverno
ma un’estate in cui decisi di essere un bravo ragazzo, ci avevano unito per
sempre. Un sempre che adesso mi
manca, un sempre che non ho meritato.
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