di Vespina Fortuna
Sono
una yazidi e vengo da Sinjar. Sono nata in un piccolo villaggio di poche anime
ai piedi del monte, là avrei voluto allevare i miei figli e vivere con il mio
compagno, i miei vecchi genitori e le mie sorelle. Era forse chiedere troppo?
Una
piccola parte di noi è fuggita disperdendosi nel deserto, tutte le altre sono
rimaste nelle mani dei tagliagole che ne hanno fatto quel che hanno voluto e
poi le hanno uccise.
Quando
li abbiamo visti arrivare a Sinjar ci siamo chiesti tutti l’un l’altro cosa
potessero cercare in quel luogo fatto di nulla e povertà, poi abbiamo capito,
purtroppo abbiamo capito, e visto. Abbiamo urlato pietà, chiesto atti di
misericordia ma le nostre voci erano pietre che invece di volare nelle orecchie
dei carnefici cadevano a terra in un tonfo assordante, sollevando polvere e
dolore.
Amina
aveva solo cinque anni, cinque. Quanti ne avrebbe potuti vivere, Dio mio?
Settanta? Cento?
Era
piccola e dolce, la mia Amina, delicata come un fiore di gelsomino e loro
l’hanno presa come se fosse una bambola di pezza usandole violenza; le sue urla
mi trafiggevano le orecchie mentre ero trascinata da mia sorella che mi
ripeteva a ogni passo “Nulla, non puoi fare nulla, più nulla!” E nulla feci per
la mia piccola se non piangere e strapparmi i capelli. Amina, fragile gelsomino
profumato che hai conosciuto la forza bruta del deserto prima ancora di scorgerne
il sole.
Sono
fuggita sulla sabbia rovente senza provare dolore ai piedi perché il cuore,
trafitto, soffocava ogni altro male. Sono fuggita da te, Amina dolce,
lasciandoti a quei coltelli insanguinati, all’orrore, alla paura, alla morte.
Sono
viva, dicono, ogni giorno mi chiedo il significato di questa parola. Essere
vivi significa svegliarsi dagli incubi notturni con un grido? O vuol dire solo cibarsi
e dissetarsi?
Se
questo è vivere, Amina mia, allora non vale la pena continuarla, stai meglio tu
nelle braccia dell’Angelo Pavone che accarezza il tuo sonno profondo.
Non
ho più nulla, non te, non i miei cari che ho lasciato a casa, né le mie tre
sorelle che hanno seguito la tua sorte, né madre, né padre.
Sono
salva Dio mio, ma da cosa hai voluto salvare questa tua figlia? Non certo dal
dolore, non certo dalla rabbia o dalla compassione di se stessa. Che ci faccio
di questo corpo vuoto, piagato dentro e fuori? Prendi anche me, Angelo Pavone!
Portami con te dalla mia Amina, fammi riabbracciare il suo corpicino profumato!
Quale
colpa abbiamo pagato, Dio mio? Quella di essere cresciuti nella convinzione che
tu, dopo aver creato la terra l’hai affidata a un Angelo? E’ questa la mia
colpa? E Amina, allora? A cinque anni ha appena fatto in tempo a sentirlo il
tuo nome, perché allora si sono accaniti su di lei, su quel corpicino delicato?
I
tagliagole urlavano che siamo adoratori del diavolo e perciò meritiamo stupri,
bastonate, sassate e morte… la mia Amina non adorava di certo il diavolo, nella
sua ingenuità non ne sapeva nemmeno l’esistenza, piccolo, dolce, tesoro.
E
tu, Angelo, che facevi mentre la mia bambina urlava? Dove stavi? Perché
proteggevi me anziché lei? Perché le hai fatto provare quello strazio e perché hai
deciso di rinnovare il mio strazio ogni mattina svegliandomi ancora in vita?
Mia
sorella Aisha mi ha trascinata qua nel deserto insieme ad altre donne in fuga,
non la vedo più da giorni, qualcuno dice che si è fermata in un campo, ma io
non ho visto campi in giro, qui c’è solo sabbia, vento e nulla più.
Voglio
tornare indietro a Sinjar, a casa mia, intorno a me non ho che dune tutte
uguali, il vento copre ogni traccia del nostro passaggio rendendoci invisibili
ai nostri inseguitori ma al tempo stesso ci nasconde la via del ritorno.
Portami
via, vento, portami con te, lontano!
Sabbia,
ti prego, entrami nella bocca, nelle orecchie, nel naso e negli occhi affinché
io diventi una statua di terra e poi mi dissolva nell’aria, sottile e
impalpabile!
Non
ho più nome, né patria, né dio. Non conosco più il perdono né la misericordia e
non m’importa più di essere una yazidi, Amina si è portata via la mia parte
buona, adesso a me non resta che l’odio e… ne ho paura!
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