di Marina Zinzani
(Commento di Angelo Perrone)
(ap) Le chiamano “case di riposo”. Visitandoli, questi
posti, si scopre che sono luoghi non necessariamente brutti e trasandati.
Talvolta, nei casi migliori, persino curati e pieni di attrezzature. Il
personale è anche disponibile. Ma gli ospiti sono vecchi da morire. Si tocca
con mano il limite estremo della vita. L’esistenza fa proprio fatica a
sopravvivere a se stessa.
Le piccole cose quotidiane, come il momento del pasto, i gesti da scambiare, le parole da dirsi, sono inciampi insuperabili. Si intreccia un doppio sguardo, quello smarrito nel vuoto dei ricoverati, e quello dei visitatori, colmo di ansie e dubbi. La visita ad un familiare ricoverato è un viaggio che interroga la coscienza e muove risposte di segno diverso. Qualcuna magari involontariamente ironica. La realtà ha sempre delle pieghe imprevedibili.
Le piccole cose quotidiane, come il momento del pasto, i gesti da scambiare, le parole da dirsi, sono inciampi insuperabili. Si intreccia un doppio sguardo, quello smarrito nel vuoto dei ricoverati, e quello dei visitatori, colmo di ansie e dubbi. La visita ad un familiare ricoverato è un viaggio che interroga la coscienza e muove risposte di segno diverso. Qualcuna magari involontariamente ironica. La realtà ha sempre delle pieghe imprevedibili.
Le
pareti azzurre. Colore riposante, l’azzurro. Certo qualche studio di
cromoterapia c’è stato. Colore rassicurante, che ricorda il cielo. Passi
ovattati, timidi quasi, in un ambiente dove tutto sembra sospeso, silenzio e
riposo. Silenzio e riposo. Silenzio e riposo. Ho voglia di vederla, non la vedo
da anni. Mi hanno detto che non è nelle condizioni migliori, che non posso
immaginare come sta ora. So che esagerano, sicuramente. Non mi spavento
facilmente.
Il
posto in cui andiamo a trovarla ha qualcosa che sdoppia i pensieri. L’azzurro
delle pareti, l’azzurro del balcone alla reception ricordano il cielo, e
dovrebbero trasmettere riposo. Ma altri pensieri si stanno levando, e non
trovano le parole, non riesco a trovare le parole. Stringo le labbra. Quelli,
attorno a me, tacciono.
Sono
con suo figlio e sua moglie, c’è anche mio marito. Siamo in quattro. Visita e
pranzo da una zia, in un’altra città, dopo tanti anni. Anni che hanno creato un
solco, e in questo asso di tempo la salute di questa donna è incredibilmente peggiorata.
Ho sentito tanto di lei, quasi aneddoti, in questi anni. Ci sono vari problemi,
ed ultimo quello che è caduta, e che ora è sulla sedia a rotelle, in attesa di
qualcosa, un’operazione, uno sviluppo che, data la sua età, è improbabile che
arrivi.
Sediamo
a tavola, dicono che arriva. L’assistente peruviana la porta, l’accompagna sulla
sedia a rotelle. Il figlio le dice: “Vedi chi ti ho portato?” Lei lo guarda,
capisce, forse no, non capisce. Ma sorride. Mi faccio forza, le prendo la mano,
le parlo. “Come stai, ti trovo bene…”
Cosa
sto dicendo… Mi guardo attorno e capisco che non ero preparata a tanto, non
sono mai venuta in un posto simile, forse per questo. Ed è qui rappresentata la
fine, la fine, la fine che ci aspetta.
Il
cibo che ci viene offerto è dignitoso, si mangerebbe normalmente da altre
parti. Ma qui non va giù. La zia, accanto a me, poi non lo tocca neanche. “Devi
mangiare, mangia” le dice il figlio.
La
dentiera, prende la dentiera e se la toglie. Probabilmente le traballa, non
riesce a mangiare con la dentiera. Se la toglie, l’appoggia sul tavolo, e prova
a mangiare qualcosa. Un purè, sì, il purè va bene…
Il
silenzio cade fra di noi. Sguardi sfiorati.
Il figlio mangia con appetito, io proprio faccio fatica. E’ una cosa
strana, non mi era successo da tempo che mi si chiude lo stomaco.
“Svizzera…”.
Alzo gli occhi dal piatto, e guardo il figlio. Cosa c’entra la Svizzera? Ma mio
marito ha capito, io tardo sempre a capire. “No, le pillole che prendo per il
diabete. Ne prendo tante e vado in ipoglicemia…” dice lui. Allora la moglie di
suo figlio si leva con un'altra versione… “Le pillole che prendo per dormire…”-
Li
guardo, e stranamente mi viene da ridere. Sorridono tutti e tre, come se si parlassero
in codice. Alla fine capisco, e dico anch’io la mia, ci penso, ci penso e sono
indecisa, dico, fra la Svizzera, lì è legale, è una cosa precisa, ordinata,
sicura diciamo, o fra le pillole per dormire, va beh che io non le prendo,
sarebbe anche un po’ complicato, cosa faccio, vado dal dottore e dico che non
dormo, non l’ho mai fatto, e poi quante bisogna prenderne, siamo sicuri che
facciano quello che dovrebbero fare, già mi confondo, non sono sicura, già mi
faccio dei problemi anche in questo caso, certo le pillole per il diabete le
avrei in casa, ma poi, quando mi abbassano la glicemia mi viene una gran fame,
forse comincerei a mangiare, resisterei alla fame, al bisogno disperato di
zucchero? No, non mi sembra una grande idea neanche questa, li guardo e suo
figlio mi sembra più intelligente di tutti, lui è un uomo pratico, lo vedo, è
lì che mangia con gusto, conosce tante cose, sa come va il mondo, è uno che ha
viaggiato, sì, ha una certo senso pratico, la sua idea mi sembra la migliore,
la più sicura, forse ci sono arrivata, devo dargli ragione.
“Svizzera,
Svizzera, concordo con te” gli dico.
Perché
il pensiero di noi quattro, con la zia che probabilmente non ci ha riconosciuto,
che guarda e sorride, che dopo due forchettate ha smesso di mangiare e si è
rimessa la dentiera, il pensiero di noi quattro è come fare a non arrivare ad
un posto simile, in una situazione simile. E’ un luogo irreale, sospeso,
questo. Tutto sembra perfetto, ma è un’anticamera misteriosa, sconosciuta.
La
zia non ha mangiato quasi nulla, i miei tentativi di parlarle sono ricambiati
con un sorriso, le prendo la mano, tornerai a camminare, le dico, lei borbotta
qualcosa, scuote la testa. Ordine, Svizzera.
Siamo
fuori, l’hanno messa a letto, forse era anche sotto l’effetto di medicine che
le danno, forse l’assenza in cui sta da anni è stata amplificata anche da
questo. Siamo fuori e c’è un giardino, siamo veramente in un anfratto irreale,
un luogo metafisico. Lo percepisco. Penso ancora all’idea della Svizzera, una
fine ordinata e precisa, certamente più dignitosa che morire qui. Suo figlio mi
guarda e sorride, sì, è un uomo pratico, ha ragione, le altre idee sono da
scartare, non sono tanto valide, pillole, pillole, no, magari non va a finire
bene e le cose peggiorano, no, suo figlio ha avuto l’idea migliore, questo
bisogna dirlo, dargliene atto…
Usciamo
da questo posto, saliamo nella sua grande auto.
“Andiamo
a berci qualcosa” dice lui.
Poco
dopo ci sediamo in un posto, è un posto come ce ne sono tanti in questa città,
c’è una ragazza carina che ci chiede cosa vogliamo, io non so cosa prendere,
una Coca? Colore marrone, vago sapore di caramello e qualcosa che frizza sulle
labbra. Bevo, è così buona la Coca Cola.
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