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sabato 20 maggio 2017

Un porto davvero bello

Ricordando Enzo Tortora: le fragili sorti delle libertà civili

di Marina Zinzani
(Intervento di Angelo Perrone)

L’appuntamento con Portobello rendeva le sere piacevoli, era un momento in cui si sorrideva, quelle cose senza grandi pretese ma che pur nella semplicità diventavano appuntamento familiare.
Non è semplice parlare di Enzo Tortora, che ancora oggi torna nella mente, presenza non dimenticata. Come le parole possono nuocere, come le calunnie possono distruggere, come presunte verità possono diventare verità: il ricordo delle manette di Tortora è qualcosa che disturba, intristisce, sgomenta.
Ci sono tante forme di manette, non solo quelle che si mettono ai polsi: ci sono manette invisibili che non si possono più togliere, chiuse con dei lucchetti dati dalle insinuazioni e dalla stupidità, lucchetti questi difficili da aprire.
Diventare quello che gli altri credono: una realtà questa che può frastagliarsi in tante situazioni, come in un gioco di specchi. Tante facce, quello che immaginano, pensano che sia, tante facce si può diventare, e nessuna vera.
Ma a nessuno importa, molto spesso. Enzo Tortora ricorda anche queste cose, soprattutto l’impossibilità di difendersi anche se si urla la propria innocenza e la propria identità. Solo di fronte allo specchio si sa di noi, ma spesso non basta.

(ap) Il suo nome non evoca oggi le pur numerose trasmissioni televisive, come la Domenica sportiva o Portobello, che hanno intrattenuto gli spettatori con un garbo ed una minuta intelligenza, così rari nella programmazione odierna su tutte le reti, ma ricorda un fatto di malagiustizia. Appunto il «caso Tortora».
Un episodio clamoroso: Enzo Tortora, accusato di gravissimi reati (dallo spaccio di droga all’associazione camorristica), fu arrestato e detenuto per 7 mesi, prima di essere completamente assolto per l’infondatezza delle accuse basate su dichiarazioni di appartenenti alla criminalità organizzata, calunniose e prive del tutto di riscontri oggettivi.
Un corto circuito incendiario tra amministrazione della giustizia, mezzi di comunicazione, opinione pubblica.
L’inchiesta giudiziaria, mastodontica e gonfia di faldoni di carta, si rivelò dai piedi di argilla. Si muoveva nelle acque, di per sé infide e limacciose, degli ambienti criminosi organizzati,  cui appartenevano tanto gli imputati quanto i soggetti cosiddetti “pentiti”. Si svolse senza l’indispensabile rigore investigativo, prescindendo da criteri di prudenza ed accortezza nella valutazione delle prove. Un tempo buio e angusto invase le aule di giustizia. Lasciava un uomo, solo contro un meccanismo micidiale.
Le immagini di Enzo Tortora in manette quella mattina 17 giugno del 1983 furono, senza pietà, continuamente riproposte sugli schermi, davvero una gogna mediatica. Difficile considerarlo una vittima, o dubitare della sua già scontata colpevolezza, rimaneva comunque un privilegiato appartenente al mondo luccicante della buona società, e ora (finalmente?) cadeva in disgrazia. Emergeva infatti un certo compiacimento per la distruzione del mito, e con esso della moralità di un soggetto che poteva apparire, non a torto, persino altezzoso e distante dalla massa nel suo stile così formale e distinto: ora infine si mostrava nella sua svelata meschinità e pochezza umana, così simili alla condizione di tanti.
Non era infatti “un intoccabile” come fu indicato da alcuni. D’altra parte, quella persona “non era mai piaciuta”, fu osservato da altri. Anche davanti ai giudici non evitò, nella difesa appassionata e strenua della sua innocenza, toni altezzosi che mostravano una assenza di fiducia nella giustizia. Era la stessa giustizia peraltro che non si accontentò delle prime apparenze e poi seppe ricostruire le fasi dell’indagine, scoprendone, come era doveroso, la insidiosa tortuosità, l’esito ingiusto e falso.
Il difetto di prudenza e di umanità portò anche ad una divaricazione dell’opinione pubblica, tra innocentisti e colpevolisti, che si muoveva non tanto sulla conoscenza degli elementi processuali, ma sull’emotività delle reazioni nei confronti di quel personaggio televisivo. Simpatico od antipatico, come del resto le sue trasmissioni. Gli schieramenti avevano il tono di una scommessa sull’esito di una partita di calcio o di una corsa di cavalli, non sul destino di un uomo.
Per le implicazioni tra lo svolgimento anomalo di un’indagine, i resoconti informativi sui media, e le distorsioni nei commenti e nelle prese di posizione dell’opinione pubblica, il «caso» ebbe effetti devastanti sulla stessa coscienza civile.
Dalla sua autobiografia successiva, sappiamo che Enzo Tortora, durante la detenzione, sognava spesso nella notte di diventare “ladro di appartamenti” insieme ai suoi compagni di cella.  Il sogno creava terribili allucinazioni piuttosto che essere fonte di rassicurazione e fantasia.
Non serve la retorica in certi casi. Fa tremare l’idea che sia così forte e radicata la paura di quanto ci possa accadere nella realtà. Sino a farci immaginare di essere in una gabbia di cui si è persa per sempre la chiave.

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