L’eterno dilemma del rapporto tra la natura e lo sviluppo industriale,
il ruolo dell’arte
di
Paolo Brondi
Negli
anni in cui Johann Sebastian Bach (1685-1750) raggiungeva l’apice della
sua attività artistica e professionale, si addensarono amarezze nella sua vita
quotidiana e una profonda crisi nella sua visione dell’arte.
Fu
gravoso per lui il momento in cui la contestazione dei tempi nuovi venne ad
assalirlo, soprattutto a causa di un suo ex allievo, Johann Scheibe, nato a
Lipsia nel 1708, interprete appassionato di una concezione della musica del
tutto antitetica a quella del maestro.
Da
una parte la tradizione dell’arte intesa come sacrificio, artigianato, sapienza
di mestiere, e concreta capacità tecnica; dall’altra quella moderna, incentrata
sui nuovi gusti della sensibilità settecentesca, fondata sulla natura.
Si
ricercava allora, di fronte all’inizio della civiltà industriale, un bene
perduto o sul punto di perdersi: la vita rustica, il bucolico quadro
virgiliano, l’arcadia, le quattro stagioni di Vivaldi: una natura descritta con
precisi quadrettini oggettivi.
A
questa visione Bach si opponeva con orgoglio e forza. Ai “giovanotti”, o
agli homines novi, come li denominava, impegnati a descrivere la natura,
rispondeva che lui era dentro la natura, lui era la Natura. Nelle sue cantate
la natura era sempre presente: vi era il cielo, la terra, il bosco, il campo
coltivato, la nuvola fuggente, il soffio del vento; la natura era il mondo
dell’uomo, era tutto, non c’era bisogno di parlarne.
La
sua disperazione, tuttavia, nasceva dalla sottesa consapevolezza che la giovane
generazione lo considerasse esponente di un’arte superata, di una concezione
della musica che volgeva al termine e che l’avvenire stesse da un’altra parte.
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