Il “chiaro” e lo “scuro”, nella
coscienza individuale e nelle regole giuridiche. Il castigo esistenziale così
diverso dalla pena
di Valeria Giovannini
(Con un intervento di Angelo Perrone)
"In ogni condanna e in ogni
assoluzione che rivolgiamo agli altri c'è un volgare rigurgito di innocenza per
noi stessi, guadagnato a poco prezzo. Con la condanna infatti vogliamo
soprattutto evitare di vedere noi stessi", scrisse tempo fa Umberto
Galimberti.
Ogni volta che giudichiamo, ci
mettiamo al riparo. Nella nostra zona comfort.
Ci sentiamo migliori. Invece, la condanna ci avvelena. Poco per volta. I
veri condannati siamo noi. Senza riconoscere nell'altro qualcosa che ci
appartiene intimamente. Perché siamo tutto e il contrario di tutto. Eroi e
codardi. Assassini e vittime. Onesti e ladri. Santi e dannati. Questione di
prospettiva. E di aver vissuto nella pelle di un altro, prima di parlare.
Meglio tacere piuttosto che condannare. Piuttosto che assolvere. E lasciarsi
attraversare dalla compassione.
"Non a te mi sono inchinato, ma
mi sono inchinato a tutta la sofferenza umana": sono le parole che
Raskolnikov rivolge a Sonia nel capitolo più intenso, elevato e sublime di Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij.
(ap) Un confine complesso sembra distinguere
la coscienza individuale (laica o religiosa che sia) dal diritto. Li separa o li
contrappone un limite incerto, labile, oscuro, anche mascherato talvolta.
Nitido, evidente, dichiarato, quando cambia la prospettiva con la quale si
guarda alle azioni umane.
Così, il
titolo originale del capolavoro “Delitto e castigo” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij,
pubblicato nel 1886 (in russo “Преступление и наказание”, in italiano “Il delitto e la pena”)
richiama chiaramente quello del trattato “Dei delitti e delle pene” di Cesare
Beccaria, testo ampiamente conosciuto in Russia in quanto tradotto già nel 1803.
A parte le
assonanze linguistiche, tuttavia, la nozione di pena secondo Beccaria è
radicalmente diversa da quella di castigo nel pensiero di Dostoevskij.
Questo,
ispirato ad un profondo esistenzialismo religioso, individua la pena nella
sanzione morale, che si nutre del riconoscimento della colpa commessa, del
pentimento e del rinnovamento spirituale.
E delinea come
possibile la salvezza, per ogni uomo che si sia macchiato anche di crimini
orrendi, nel riscatto morale, accompagnato dal supporto insostituibile
dell’amore, come quello offerto gratuitamente dalla giovane Sonia all’omicida Raskolnikov.
La regola del giudizio non subisce peraltro,
come sembrerebbe, una sospensione; non è infatti assente, ma opera in una
dimensione fortemente interiorizzata travalicando decisamente quella, pubblica,
della condanna “giuridica” per il delitto commesso: è tormento dell’anima,
desolazione emotiva, castigo, sofferenza e devastazione, sino alla rinascita
interiore.
Nella coscienza individuale trovano eco
certamente le contraddizioni, le ambiguità, le paure, i bisogni, i percorsi
frammentati dell’animo, che richiedono attenzione, conoscenza intellettuale,
approfondimento emotivo. In cui il chiaro e lo scuro si sommano e si
confondono, spesso, in un intreccio, che esige in primo luogo rispetto, oltre
che analisi non superficiali.
Tuttavia, il cammino storico delle
società, da epoca immemorabile, poggia, necessariamente, sulla distinzione tra
reato e peccato, come appunto chiarito in modo esemplare nella riflessione di
Beccaria, ispirata ad una concezione laica ed illuministica.
Un criterio che si ferma ai limiti della
coscienza, senza misconoscerla né fraintenderla, anzi comprendendola e persino
facendola propria ma sul piano della determinazione dei principi della
convivenza sociale: non uccidere, non rubare, non usare violenza. Non anche nel
momento concreto dell’atteggiamento pubblico davanti al crimine.
Il reato, direbbe Beccaria, è un danno alla società e quindi all’utilità
comune che si esprime come idea
nata dal rapporto fra uomini, dall'urto delle opposizioni delle passioni e
degli interessi; il peccato, invece, si costituisce come un reato che l'uomo
compie nei confronti di Dio (oppure, per i non credenti, contro la sua
coscienza), che quindi può essere giudicabile e condannabile solo dallo stesso
“essere perfetto creatore” o dalla
soggettività individuale.
Un giudizio confinato dunque ad una
dimensione puramente metafisica, oppure inapplicabile e dunque insufficiente a
regolare i rapporti umani secondo necessità.
L'ambito in cui il diritto può
intervenire legittimamente non attiene dunque alla coscienza morale del
singolo, che è imperscrutabile da parte dell'uomo, tanto quanto fraintendibile
nell’intenzione.
All'uomo deve interessare l'esito
dell'azione, non la premessa. La gravità del peccato dipende dalla malizia del
cuore. Che sfugge certo ad ogni valutazione esteriore, ma che non può nemmeno
conoscersi senza rivelazione. Come assumerla a discrimine delle condotte umane?
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