L’acqua, evocata in modi spesso diversi, è il tema
ricorrente di questi "Racconti", e forma il filo principale di una trama sottile
di significati e di esperienze di vita
di
Marina Zinzani
Tratto
da “I racconti dell’acqua”
(Commento di Angelo Perrone)
(ap) L’acqua è elemento comunque prezioso, non
potremmo mai farne a meno. Toglie la sete soffocante, è più importante per la
sopravvivenza del cibo stesso, provoca un piacere gradito e sottile quando ci
rinfresca dopo la fatica, ma ci allarma e spaventa se ha le forme impetuose e
travolgenti dell’uragano e delle tempeste. Ci solleva permettendoci di nuotare
ma può anche travolgerci facendoci sprofondare nell’abisso, in un gioco di
ruoli che si alternano e scambiano in brevi istanti.
Simbolo di energia, di vitalità, del
divenire stesso. Proviene dalle sorgenti e dal mare, dai laghi o dai fiumi, è
limpida e sporca, stagnante oppure increspata. Un filo riconduce l’acqua al
liquido amniotico, nostro habitat sicuro e rassicurante per i nove mesi della
gravidanza. E’ essenza del corpo, in gran parte fatto proprio di liquidi.
Composto prevalente dell’ambiente naturale nel quale scorre lenta o tumultuosa
la nostra vita. Può farci sobbalzare nella paura, o distenderci serenamente
provocando benessere fisico e dilatando la misura del tempo e dello spazio.
Anima i nostri sogni percorrendoli
in forme mutevoli come i sentimenti, all’inseguimento di significati sfuggenti
a chi è vigile e cosciente. Richiama sensazioni inquiete di incontrollabilità,
alimentando immagini angosciose di sperdimento. Offre l’idea di un rifugio
sicuro da qualche parte lontana quando la realtà è poco piacevole.
Attraversa anche la parola scritta
di questi “Racconti dell’acqua”, come protagonista discreta e misteriosa, mai
sfacciata e proterva, di storie tra loro diverse per intensità e stile e
apparentemente dedicate ad altro. Così questi racconti, nella narrazione di
altro, finiscono per dare rilievo proprio a lei, l’acqua, scoprendone le
molteplici dimensioni di senso. Mostrandolo come elemento così importante ed
utile ma anche tanto fragile e precario: a volte inquinata, sprecata,
impoverita da un clima reso ancora più pazzo dalla follia dell’uomo.
L’acqua si accompagna a riti che
scandiscono i tempi della vita, dal nutrimento alla purificazione alla stessa
morte. Comunque preziosa per dirci, anche attraverso le parole di brevi
racconti, chi siamo, o vorremmo essere.
Erano
giorni che Emma faceva sogni inquieti. Eppure aveva davanti a sé un lungo periodo
di riposo, un meritato riposo dopo le fatiche scolastiche. Erano da poco finite
le scuole e stava vagliando se concedersi una vacanza alle terme di Ischia con
la sua amica Laura, un momento che si preannunciava piacevole, almeno sulla
carta.
Erano
lontani gli anni in cui il marito programmava le ferie, la classica settimana
in montagna, a camminare per i boschi e a riempirsi d’aria pulita i polmoni, e
lei l’assecondava. Amava tanto la
montagna, suo marito.
Ricordi.
Ora c’era un’altra realtà da anni. Era sola, lui se n’era andato, la classica
sbandata per una donna più giovane ma una cosa seria, con tanto di convivenza e
figlio dopo un anno. E a lei era rimasto ben poco, di tutti quegli anni
dedicati a lui.
Anni
dedicati non solo a lui, ma anche alla scuola. Ai suoi ragazzi. Dieci anni di
matrimonio e dieci anni sui banchi di scuola, ad insegnare lettere. Lavoro che
l’aveva piano piano assorbita, stancata, prosciugata. La stanchezza si era
accumulata ogni giorno, e aveva inciso,
sì, lo sapeva, aveva inciso anche nel
rapporto con suo marito. Lui avrebbe voluto una compagna più sorridente, più
leggera.
C’erano
state tensioni nella sua scuola, da anni duravano, malignità fra colleghe,
quasi un sottile mobbing dalla preside. Lei si era ritrovata qualche volta
anche a piangere, in casa, e il marito l’aveva consolata. Ma col tempo ogni
sorriso sembrava essersene andato per sempre, per sempre.
La
scuola finita, i mesi davanti di riposo, e sogni inquieti. Il tempo a
disposizione per se stessa, in una casa vuota. Trovarsi già un po’ avanti negli
anni senza un compagno, solitudine alla sera, solitudine durante il giorno, e a
volte un pensiero: chissà se con un figlio, chissà se lui l’avrebbe lasciata…
Pensieri,
ora inutili. Voglia di fare, di curare il balcone, di comprare nuove piante, di
sistemare qualcosa in casa. Programma a teatro,
un paio di serate di musica classica a cui poteva andare con Laura, e
poi la settimana alle terme di Ischia, sì, sarebbero stati bei giorni.
Il
telefono suona. Chi sarà?
“Lei
è la professoressa di Cristina Rossi? Lo sa cos’è successo a mia figlia, vero?”
Parole
e domande, domande e risposte.
“Sì,
sì so la storia, purtroppo… “
“Vorrei
parlare con lei, professoressa. A che ora possiamo vederci?”
Il
bar sotto casa diventa luogo
inopportuno, voglia di fuga, voglia di sottrarsi a quella donna che si
presenta poco dopo con gli occhialoni scuri e un impermeabile beige. E’ una
bella donna, forse ha la sua età. E’ la madre di Cristina, l’ha vista qualche
volta, l’ha ricevuta per la figlia. Cristina è brava, ottimi voti, nessun
problema, le aveva più volte detto.
Si
sedettero in un angolo, cosa gradisce? Si chiedono queste cose ad una madre che
ha perduto sua figlia, rientra ancora la vita, con le sue piccole cose, cosa si
prende al bar, nel volto terreo di una
donna che non sa darsi pace?
Pensieri,
dubbi, riflessioni, prima di vederla. Ma poco il tempo per sapere cosa dire,
per immaginare ciò che lei le avrebbe chiesto.
Volto
indurito ed occhi arrossati, quando si tolse gli occhiali: la madre di Cristina
la guardava, lo sguardo sembrava penetrarla, aprire tutte le porte, fatte di
frasi convenevoli, e andò dritta fino in fondo, in una precisa domanda.
“Mia
figlia aveva scritto un tema, pochi giorni prima di morire. Lei l’ha letto, e
non ha fatto niente, non ha capito il malessere che aveva. Poteva chiamarmi,
anche parlarle in privato, erano parole forti, ho letto quel tema.”
“Non
credo ci forse qualcosa di particolare in quello che aveva scritto, era chiaro
certo il disagio che hanno tutti i
giovani oggi.”
“Non
ha compreso niente, quindi… se io avessi saputo cosa l’avvelenava da tempo… se
io avessi immaginato che razza di compagni aveva, il menefreghismo anche degli
insegnanti… lei poteva dire qualcosa, comprendere, chiamarmi…”
Il
tema. Parlava dei bulli. Ma in modo generico. Erano pensieri generici. Cosa significava generico?
Che accade a tanti, a entità astratte. No, a persone. Era quella ragazza dai
capelli lunghi, con l’apparecchio ai denti, il viso dolce e delicato,
quell’entità astratta? Era di se stessa che parlava?
Sapeva,
lei sapeva, lei, l’insegnante di lettere sapeva. Sapeva che certi soggetti
facevano scherzi di cattivo gusto a dei compagni, che prendevano di mira
alcuni. Sapeva e aveva taciuto. Mettersi contro certa gente… domani sarebbero
arrivati i genitori, quelli erano figli di persone importanti anche… no, meglio
tirare avanti, sono cose da ragazzi, se la sanno cavare i ragazzi…
Cristina
no. Cristina non ce l’aveva fatta, ed aveva gridato in un foglio di carta, in un
banale tema in classe, il suo tormento, l’ansia che assaliva prima di andare a
scuola… “Sono violenti quelli, devo tirare dritto, non rispondere, devo fare
finta di niente, finirà, finirà quest’ anno scolastico, poi non li vedrò più,
devo studiare, applicarmi, devo far finta di niente, far passare i giorni”: è
questo che aveva pensato, nel segreto di una stanza, con gli occhi bagnati,
Cristina? E dove aveva preso la forza per fare quel gesto, per dire basta?
“Acqua,
bevo solo un bicchiere d’acqua” rispose la madre di Cristina al cameriere
venuto per l’ordinazione.
“Tè,
io prendo un tè….”
Ecco,
abbassando gli occhi, sapeva che qualcosa doveva dire a questa donna. Doveva
fingere, proteggere la sua categoria, già abbastanza stressata e denigrata, dire
che non poteva accorgersi di quello che succedeva nella testa di adolescenti
inquieti. Doveva trovare le parole giuste, per cercare di dare una consolazione
a questa madre. Ma non le venivano. Niente.
“L’ho
letto il tema, e vi ho visto amarezza, questo sì, ma non più di altre volte.
Cristina aveva una visione matura, profonda delle cose, era una ragazza molto
sensibile…”
Sì,
le parole giuste. Cos’altro poteva dire? Atmosfera silenziosa, c’è poco da
dire, la madre si asciuga le lacrime con il fazzoletto, è lì, questo è il suo
volto, il volto di chi ha appena perso una figlia perché ha fatto un volo, ed
ha lasciato solo un biglietto, chiedendo scusa.
Acqua,
arrivò una bottiglietta d’acqua con un bicchiere, e il suo tè. Emma non aveva il coraggio di
guardarla negli occhi, fissò a lungo la bottiglia dell’acqua, ne lesse
l’etichetta, era naturale, era una marca che conosceva, doveva comprare anche
lei l’acqua.
Il
suo tè, un sorso, troppo bollente.
“Non
si è accorta di niente? Di come stava mia figlia? Avrebbe potuto salvarla,
forse… Quel tema farebbe accendere i campanelli d’allarme a qualsiasi persona abbia
un po’ di intuizione, un cuore…”
Acqua,
la marca, la bottiglia ancora chiusa. Rimase chiusa. La donna si alzò, mise gli
occhiali neri e si allontanò, senza salutarla.
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