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sabato 23 dicembre 2017

Quel che resta

di Marina Zinzani
(Tratto da “I racconti dell’acqua”)
(Commento di Angelo Perrone)

(ap) Perché finisce una storia? Recriminazioni, nostalgie, pensieri. Un percorso lungo che richiede tempo, fatica. Non sempre riesce, e allora il cuore rimane dilaniato, senza una via di uscita. Non basta nemmeno l’impegno quotidiano, per capire e trovare la forza di reagire.
Sono misteriose le risorse che possono aiutare a risollevarsi, fatichiamo a individuarle. A volte sono molto vicine, sono in noi stessi, tutto è così semplice: come l’acqua che dà nutrimento alla fragile piantina. E la fa rifiorire, se appassita. Basta solo saper riconoscere l’aiuto che possiamo riceverne, e lasciare che ci cambi la vita.
L’acqua è il tema ricorrente di questi Racconti. Elemento prezioso, simbolo di energia, di vitalità, del divenire stesso, attraversa la parola scritta come protagonista discreta e misteriosa di storie diverse. Ma che finiscono per dare rilievo proprio a lei, l’acqua, scoprendone le molteplici dimensioni di senso.

La casa vuota, ora che lui se ne era andato. Il cuore svuotato, ferito, vuoto come un vaso in cui un tempo c’era stata una pianta rigogliosa che aveva dato dei fiori in primavera ma anche in inverno, una pianta che non conosceva l’andamento delle stagioni, perché era sempre viva, e la sua linfa riscaldava la casa.
Vaso  vuoto, solo i resti di una pianta, foglie morte, come quelle di cui cantava Ives Montand, la casa vuota: lui se n’era andato.
Quante storie finiscono, anche dopo tanti anni più o meno sereni, venti, trenta, e finiscono dopo che si sono messi al mondo dei figli, fatti crescere, accompagnati anche fino all’università. Poi, un giorno, puff, finisce tutto. E lui se ne va. E resta solo la casa vuota, il cuore vuoto, vaso vuoto, foglie morte.
Lara se ne stava nel divano, di sera, da sola. Il figlio fuori, lui aveva la sua vita, era con gli amici e la sua ragazza. Forse era stanco anche lui di lei, di vedere la madre che recrimina, che torna sempre, incessantemente, sullo stesso argomento: “Tuo padre ci ha lasciati, un’altra più giovane doveva trovarsi tuo padre, dopo trent’anni di vita insieme”.
All’inizio chi assiste a questo dolore, una madre, un figlio, un’amica, gli amici del marito, sono presi dalla pena e dalla condivisione. “Non ti eri accorta di nulla? Ma le cose fra voi funzionavano? C’erano state delle crisi?”
Le domande servono ad indagare le origini del male, dell’evento che ha provocato tanto dolore. E’ come la diagnosi di una malattia improvvisa, misteriosa, in cui ognuno cerca di portare attraverso una possibile spiegazione un lenimento ad una ferita tanto profonda, ma c’è poco che le parole possano fare.
E’ così all’inizio, ma dura poco. Le persone, i confidenti, i soccorritori, si stancano molto presto di lacrime e di recriminazioni, hanno le loro vite, con altri problemi, e piano piano si allontanano. E’ così che finisce, il cuore vuoto, il vaso vuoto, le foglie morte di una pianta che riempiva la casa e dava ossigeno.
Il divano compagno e contenitore del suo corpo stanco, nelle sue sere solitarie, con il figlio anche lui stanco di una madre che non se ne faceva una ragione e che troppe volte aveva raccontato quanto erano felici prima che quella donna entrasse nella vita di suo padre: Lara guardava la televisione, e i suoi pensieri vagavano per boschi di notte, era un film inquietante quello che stava vedendo, una donna che era sparita in un bosco di notte, e anche lei sembrava essersi perduta, forse non sarebbe mai più uscita da quel bosco.
Poi, all’improvviso, aveva cambiato canale, e il suo sguardo si era soffermato su una donna che spiegava come era rinata, dopo essersi presa cura di un cane. Ricette per emergere da solitudini e depressioni, ma difficilmente avrebbero funzionato per lei.
Si alzò dal divano, e andò in cucina. Il cibo le era rimasto sullo stomaco, e decise di farsi un tè. Fu lì che vide una piantina che teneva in cucina, non l’aveva curata tanto ed era quasi morta. Prese il vasetto fra le mani, e per un attimo era come se ne sentisse la sua sete. “Perché non mi hai dato l’acqua? Perché vuoi farmi morire?”
Allora prese una bottiglietta, e ne versò un po’ nel vaso. Acqua, ecco, ora hai un po’ d’acqua. Questo le venne da pensare.
E non la mise più nell’angolo del mobile in cucina, ma al centro del salotto, su un tavolino di vetro, in modo che potesse avere di giorno maggiore luce possibile.
Tornò, con la tazza di tè caldo, nel divano, si accovacciò mettendosi un plaid sulle gambe. Il calore della tazza le scaldò le mani, e per un attimo pensò che aveva salvato appena in tempo la piantina. Ci voleva acqua, ci voleva sole.
E piano piano, guardando quella piantina, tornando ai ricordi felici di un’unione felice, sentì qualcosa di strano e si fece largo un pensiero, come se l’acqua avesse nutrito un po’ anche il suo cuore. Sentì che le restava qualcosa: suo figlio, e i giorni che aveva davanti.

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