Il
travestimento è un rito ancora attuale: nostalgia di una realtà del passato, gusto
dell’avventura e persino della ribellione
(ap) Una pioggia
di coriandoli, sfilate di carri allegorici, festeggiamenti collettivi di
piazza, burla irridenti e dissacratorie: ogni anno si rinnova l’appuntamento
con il carnevale,
coinvolgente e fascinoso nonostante tutto. Festa senza età, a volte preparata
in tutti i mesi precedenti, perché travestirsi è sempre una suggestione
irresistibile.
Accade così da sempre, in forme che si rinnovano nel tempo e si attualizzano, ma che mantengono un elemento costante: l’uso del mascheramento, come rappresentazione della condizione umana. Perché allora resiste nel tempo il fascino della maschera? Il bisogno di apparire altro da sé?
Accade così da sempre, in forme che si rinnovano nel tempo e si attualizzano, ma che mantengono un elemento costante: l’uso del mascheramento, come rappresentazione della condizione umana. Perché allora resiste nel tempo il fascino della maschera? Il bisogno di apparire altro da sé?
Sembra
esserci un sottile collegamento tra il carnevale e la Pasqua, dato che il
festeggiamento cade prima della quaresima (ed è per questo senza data fissa); e
anche il significato della parola contiene un’allusione alla ricorrenza
religiosa. Il nome deriva dal latino carnem
levare, eliminare la carne, ad indicare appunto un ricco banchetto
precedente l’astinenza del periodo quaresimale.
Però
finiscono qui le assonanze con la ricorrenza religiosa: la festa ha sempre
avuto le caratteristiche del gioco e del divertimento, persino della
liberazione dai condizionamenti sociali e dalle regole correnti, sino alla
presa in giro dei potenti del tempo.
Infatti una
delle ipotesi sull’origine di questa usanza è da ricercarsi nella tradizione
pagana dei riti dionisiaci nella Grecia antica, e poi dei saturnali romani,
travestimenti cui erano dedite le popolazioni arcaiche per propiziarsi gli
spiriti dei defunti, espedienti attraverso i quali essi avrebbero avuto la
possibilità di tornare sulla terra, divertendosi e facendo baldoria, in cambio
della loro benevolenza in vista di raccolti abbondanti. Un rito di passaggio
tra vecchio e nuovo anno, superamento delle traversie patite in precedenza e
preparazione di una nuova fase della vita, più ricca di prosperità.
Molte
allora le forme assunte da questi travestimenti. I popoli primitivi usavano
indossare delle pelli e coprirsi il volto, imitando le movenze animali, in
funzione propiziatoria. Certe danze cerimoniose permettevano di mettersi in
contatto con le energie della natura, oppure con gli spiriti che vigilavano
sulle sorti umane, in modo da ricavarne benefici per il futuro.
Un valore
magico quello proprio delle maschere, mantenuto nei secoli, ma con un
significato mutato nel tempo: non più rito propiziatorio per ingraziarsi il
favore degli spiriti, ma strumento di una festa particolare, durante la quale
vi è una sorta di sospensione del proprio vissuto quotidiano per entrare in
un’altra realtà, e viverne tutte le potenzialità.
Il
travestimento permette di lasciare il presente e di indossare appunto i panni
appartenuti ad altri, non importa se realmente esistiti o immaginari. Allo
scopo di vivere in un’epoca diversa, fantasiosa e splendente, ricca di
bellezza, o semplicemente di avere un altro ruolo sociale, conquistando la
libertà impossibile di essere altro da sé, e permettersi delle licenze,
compresa quella, tollerata in una realtà immaginaria, di deridere impunemente i
potenti del momento. Ad una condizione però, di avere il volto coperto e dunque
non essere riconosciuti.
Se un tempo
con questa festa gli schiavi potevano fingere di essere liberi e i nobili
potevano essere derisi, poi la burla e la derisione dei potenti diventano il
canovaccio ricorrente di questi festeggiamenti, insieme all’esaltazione dei costumi
e della abitudini del passato. Le maschere
tradizionali del carnevale italiano, elaborate sin dalla commedia
dell’arte, hanno tutte questa caratteristica comune. Con Arlecchino,
Pulcinella, Brighella e Colombina compaiono altrettante figure di furbi
servitori che si prendono gioco dei loro padroni senza conseguenze.
Maschere
dunque comunque trasgressive rispetto alla grigia normalità, e anche liberate
da costrizioni e gerarchie sociali. Per questo, Giacomo Casanova, che amava le
feste senza fine del carnevale
veneziano, il più importante d’Europa nel ‘700, poteva dire che «Venezia ha
raccolto tutta la felicità che c’è su questa terra» e vantarsi del suo
travestimento preferito, da Pierrot, perché nascondendo le sue fattezze reali
gli consentiva di avvicinarsi ad alcune monache «molto attraenti». Del resto,
dietro un mantello lunghissimo che copre i propri abiti di ogni giorno, può
celarsi chiunque a volto coperto, un nobile o un plebeo, un onest’uomo o un
vile delatore. E, nonostante le ampie scollature del tempo e le trasparenze
alla moda, gli ampi tessuti di seta e i pizzi voluminosi rendono difficile
distinguere una nobildonna da una semplice cortigiana.
La maschera
non è solo travestimento, ma sogno e mistero. Oggetto ora teatrale ora
goliardico, ha comunque un valore simbolico: è lasciare i panni di tutti i
giorni in cerca di altri, desiderio di ciò che non si è. Un rito che esprime
distacco dall’identità quotidiana, con il rischio di una perdita: non essere
riconosciuti può significare anche non riconoscersi. Quasi un salto nel vuoto
di un mondo tanto fantastico quanto irreale. Ma per un attimo brevissimo è
forse capace di svelare qualcosa del nostro inconscio, la parte più inquieta
che vorrebbe essere altrove. In modo indistinto e confuso, la maschera è
nostalgia di ciò che ci manca, illusione di averlo trovato, magari voglia
incontenibile di avventura e ribellione. Il
nostro segreto più indecifrabile.
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