L’ultimo acuto del cigno ballerino e il
flebile respiro della fanciulla dai soffici capelli corvini
di Marcello
Caccialanza
Ricordo ancora, emozionato e stupito, quel piccolo
angolo di paradiso perduto, fedele ostaggio di quell’ultimo drago, che nessun
cavaliere di buona volontà era riuscito mai a domare fino in fondo!
Un minuscolo fazzoletto di terra profumata; una
poesia di prati in fiore, che celava dolce amoreggiar di venticello assai
galante; mentre quegli alberi secolari, toccando il cielo con un dito, cullavano
quei teneri amori tra ingenui adolescenti, ancora lindi nell’animo in tormento e
così andava lentamente trionfando la melodia, senza tempo e senza storia, di
quel laghetto cristallino, dimora di quel cigno ballerino, animale regale, dal
vestito candido come la neve, che ogni notte – al chiaro di luna- conversando
con l’ultimo angelo caduto sulla terra, danzava sulle note della sua stessa
felicità.
E poi in quella triste mattinata di un novembre
galeotto, dove la nebbia, fitta e meschina, avvolgeva, con veemente prepotenza,
ogni cosa che le si presentava addosso, si dipanò malinconica verità: macchia
di sangue sporcava acqua cristallina e dolce carcassa di un danzatore, caduto
ormai in disgrazia, galleggiava fredda ed inerme stroncata dalla sua fragile dolcezza.
Così, all’improvviso in un battito d’ala, in quel
novembre tristemente cupo per nostalgia di eventi speculare sciagura di umana
sofferenza andava piano piano manifestandosi all’unisono là, in quella nera
prigione dalle pareti asfissianti, stretta in quella morsa di apatico silenzio
di una grigia combriccola di fabbriche fumanti.
Maledetta scatola, senza via d’uscita, opprimente
trappola per topi da esperimento, uccideva istante dopo istante flebile respiro
di fanciulla mortificata dalla stessa sua vita.
In una stanza buia e spoglia di ricordi,
dolcemente accoccolata su di quel letto sfatto di rose appassite, giaceva, muto
ed in eterna solitudine di intento, fragile corpo di donna violata.
Bella più che mai, come la Fedra migliore di ogni
tempo fecondo baciata in fronte da quello stesso Racine innamorato gioia
furtiva di occhi sognanti.
Aveva soffici capelli corvini, raccolti, con
garbata gentilezza, in quella treccia dal sapore antico; aveva occhi grandi e
profondi di cielo vestito a primavera, che in un incubo senza fine erano
sbarrati d’innanzi al nulla di una verità nascosta ed imploravano invano una
pietà inascoltata.
E che dire della sua acerba pelle d’avorio che
odorava di bosco e brillava in saette di luce, risplendendo al nuovo giorno, che
mestamente si materializzava al cospetto di quella umana cattiveria difficile
da sradicare, era avvolta, con garbata dolcezza, in quell’abito di chiffon
giallo, che le lasciava scoperte, in una meravigliosa poesia d’altro tempo,
quelle tenere parti di femminilità repressa per ingenua timidezza.
Ma attorno a quel corpo dalle geometrie perfette,
come lucciole in festoso corteo estivo, scivolava perfido sciame di piccole
pillole letali, retaggio indiscusso di una voglia pazza di farla finita di una
voglia pazza di gettarsi, senza mai voltarsi in dietro, in quel sottile
baratro, che l’avrebbe di certo condotta nella valle dell’oblio, nel paese dei
balocchi dove forse per la prima volta si sarebbe potuta finalmente sentire
viva.
Se mi fermo a pensare ai perché della vita –
credetemi sulla parola- sento brividi di un dolore atroce e mi piego, ormai
spezzato, a quella malinconica memoria di un ricordo crudo ed insopportabile.
Chiudo dunque gli occhi, gonfi di lacrime
incredule, in una sorta di forzata compostezza e mi accorgo di vedere lei, in
tutto il suo splendore soccombere ingiustamente tra le forti ed ingannevoli
braccia di quell’ultima belva, con l’abito della domenica, che, in preda ai
suoi pruriti più subdoli e ai suoi istinti più bassi, si ciba, con la bava alla
bocca di quella verginità violata.
La ragazza non avrebbe mai immaginato che quel
lecito rifiuto di un ballo proibito, in riva ad un mare immaginario, in una
notte falsamente propizia, nel caldo abbraccio di un’estate incalzante; avrebbe
così potuto determinare quella causa scatenante, che l’avrebbe poi condotta tra
le impalpabili ed avvolgenti braccia del buon Morfeo, perfetto spettatore.
Era dunque lei, la fanciulla dalla lucente chioma
corvina, sistemata con garbo in un elegante chignon dal profumo di fiaba
d’altro tempo. Era dunque lei, la giovane Venere sognante dall’essenza
meravigliosa di quella fresca pelle d’avorio luminoso!
Com’era bella, tremendamente bella, quel nefasto
quindici luglio nel giorno felice di quel genetliaco: sedici splendidi anni in
speranza di un futuro a lei ameno.
Elegante, come musa fortemente cercata da acerbo
pittore in erba, desideroso di ispirazione ad ogni costo, si mostrava lieta in
quel suo piccolo cor, che batteva all’impazzata.
Apparve così, come gentil nuvola di seta bianca
abbigliata, in quell’immenso salone delle feste, brulicante di giovani aitanti
ansiosi, in testa loro, di danzare quel primo valzer di felicità.
Ma lei il suo principe azzurro lo aveva già – di
grazia - incontrato: bello e splendente in quella sua uniforme di gala; perché
lui non era altro che speranzoso cadetto di una prestigiosa scuola militare.
Anche, se in verità, i due giovani si frequentavano
ormai da tempi non sospetti, da quella loro tenera infanzia di ovatta e di
zucchero filato.
Fin da piccoli, infatti, i due bimbi, alla
scoperta del loro mondo circostante, avevano respirato la medesima aria;
avevano calpestato gli stessi prati verdi.
Questo all’occhio altrui poteva quindi apparire
come una specie di amore” geniale”, un amore spavaldo, avvolgente come il sole!
Un sentimento “ burroso” che era cresciuto giorno dopo giorno in uno
straordinario respiro reciproco; nella libertà più assoluta e nella sincerità
più concreta di armoniosa ed amorosa corrispondenza di sensi.
Un’orchestra, in frac vestita, stuzzicava –
infingarda - quei mille violini sognanti che, in timida sinfonia di una notte,
perduta nella voglia più estrema di un contatto di pelle, si accingevano a
regalare un idillio di malinconiche promesse; mentre il canto silenzioso di
un’opaca luna, pallida vestale, accarezzava maternamente quel desiderio primordiale
di essere amati per tutta la vita!
Mano nella mano, tra i sorrisi d’argento, sinceri e
pressanti, lui e lei, in folle giravolta di sguardi assoluti, volteggiavano
beati in un baratro a loro guisa, senza spazio e senza tempo.
Ma – ahimé - anche la favola più lieta ha
purtroppo il suo esasperato rovescio della medaglia! Lui, cadetto nell’anima e
nella testa, quella sera, in preda alla ferocia dei suoi diciotto anni, in
balia della boria dei suoi pruriti giovanili, si vendette, senza provare alcun
ritegno di sorta, alla chimera di un Bacco traditore!
E così, disinibito e lussurioso con la smania di
mostrarsi falsamente uomo, portò la sua lei nel “Giardino d’inverno” e in mezzo
a rose antiche ed orchidee di ogni specie violò con rabbiosa voracità
l’intimità di quella fanciulla, che dell’amore eterno aveva fatto il suo
mantra. E lei, sconfitta e amareggiata, si accorse che quella sua candida veste
di sangue si era macchiata.
Se chiudo gli occhi rivedo quella fragile ragazza
stesa su quel letto di rose appassite, mentre da una trave a vista pende,
freddo e privo di vita, il corpo in splendente uniforme di quel bastardo, che
si faceva chiamare uomo “la musica è finita, gli amici se ne vanno!”
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