A
scuola con il cibo preparato a casa: la questione del modello di organizzazione della
scuola pubblica, la sua inclusività e capacità formativa. Quando una seria politica del welfare?
(ap*)
Difficile convincersi a prima vista, forse a causa delle tante informazioni
false che circolano, che si tratti di una notizia seria, e non piuttosto di una
fake news, magari favorita dal caldo torrido di questa estate. Davvero è un
problema se gli studenti, a mensa, mangiano, invece del pasto preparato dal loro
istituto, un semplice panino portato da casa? A chi dà fastidio? Quale
principio viene leso se ognuno si regola a modo suo, e si nutre con il pasto
preparato dalle mani amorevoli della propria mamma piuttosto che da quelle,
meno affettuose, dei dipendenti di una mensa?
Eppure,
dice la notizia, la Cassazione – a sezioni unite, dunque c’erano pure
orientamenti divergenti – si è occupata di questo, il panino in classe, e lo ha
fatto a modo suo, soffermandosi a lungo sulle caratteristiche generali del
funzionamento delle mense scolastiche. E alla fine ha stabilito: «niente più
panino da casa». Panino, o qualsiasi altro cibo che sia preparato in famiglia.
Non va bene che il pasto venga da fuori. E anzi va esclusa questa eventualità proprio
perché si tratta di un cibo confezionato fuori degli ambiti scolastici. Gli
studenti devono mangiare quello che prepara la mensa del loro istituto, e non
possono portarsi nulla da casa.
Non
doveva essere una questione da poco se, nel 2014, i
genitori di alcuni alunni torinesi hanno avviato una causa contro le autorità
scolastiche – che volevano imporre il cibo “pubblico“ ai riottosi - ; se in
un primo momento alcuni giudici hanno accolto la richiesta; se infine Comune di
Torino e Ministero dell’Istruzione si sono decisi a fare ricorso contro l’orientamento
contrario. Accanto a quei pionieri, molti altri genitori hanno sostenuto le
stesse tesi, “panino libero“ a scuola, a volte perdendo la battaglia, a volte
no. Una controversia senza fine, ora risolta, pare, ma ci saranno di certo
contro iniziative, dalla decisione della Cassazione. Quale la reale posta in
gioco? Perché tanto accanimento?
Non
aiuta a comprendere il motivo reale del contrasto lo sforzo di definire, proprio
in rapporto al cibo a mensa, i diritti di ciascuno. Quello di mangiare il
proprio cibo, cioè il cibo preparato a casa, non può definirsi un diritto
dell’alunno, se parliamo di vita scolastica. Nell’orario della mensa e dunque
nell’ambito del più generale funzionamento della scuola, non esiste, per il
singolo, un diritto – soggettivo e incondizionato - di questo tipo, dice la
sentenza. Il singolo è inserito nell’organizzazione scolastica e quindi
partecipa di essa anche quanto al servizio di refezione. Può apparire
paradossale l’affermazione di una carenza di diritti individuali nel contesto
scolastico sia pure riferita soltanto a una questione minimale come la
preparazione del cibo, e soprattutto può sembrare incongruente e poco
plausibile. Torniamo al punto iniziale: a chi nuoce? Perché non consentirlo?
Risalendo
indietro, dalla decisione ai motivi dell’iniziativa dei genitori, compare
qualche sprazzo di luce: al tempo, si era formato il comitato
dei sostenitori del cibo portato da casa principalmente per denunciare il “caro
mensa”, il costo del pasto somministrato agli alunni (sino a 7 euro),
l’insostenibilità della spesa per molte famiglie, infine il fatto che ai
“morosi“ la scuola non garantiva la somministrazione del cibo. Bambini molto
piccoli, spesso di famiglie straniere, venivano discriminati. Poi erano emerse
altre critiche: non sempre il cibo delle mense tenevano conto delle esigenze
sanitarie o alimentari dei piccoli, più in generale – e francamente in maniera
poco documentata – un italiano su quattro dava una valutazione negativa della
qualità di questo cibo. Il rimedio dunque a tutto ciò era il “pasto libero“, il
cibo preparato a casa, magari un semplice panino, portato in classe e mangiato
insieme agli altri studenti. Comunque saporito e buono.
Se
la storia di questa protesta chiarisce l’insistenza con la quale la battaglia
sul cibo libero è stata sostenuta da molti sino in Cassazione, un passaggio
della decisione introduce una prospettiva del tutto diversa. Il ragionamento
dei giudici è costruito tutto sul concetto di “comunità“, nella sua dimensione
appunto scolastica: quel tipo speciale di comunità che è, meglio dovrebbe
essere sempre, la scuola. Ci sono delle regole comuni, la cui funzione non è
quella di svilire i diritti dei singoli, ma piuttosto di salvaguardare
principi di uguaglianza e non discriminazione in base alle condizioni
economiche, oltre che di contrastare i rischi sanitari che una nutrizione
“fai da te“ potrebbe determinare.
Sullo
sfondo, sembra proprio che ci sia una divaricazione sul concetto stesso di
“refezione scolastica“. Da un lato, vista semplicemente come soddisfacimento di
un mero bisogno fisico-alimentare individuale, da affrontare perciò nel modo e
al costo più conveniente per ciascuno. Dall’altro, invece un’idea di refezione come
tempo, essa stessa, della vita scolastica e del suo insegnamento, di cui
l’organizzazione statale deve farsi carico, perché elemento qualificante – come
la normale istruzione – dell’impegno civile.
E
tuttavia, in questa contrapposizione tra opposte visioni della refezione
(individualistica la prima, solidale e partecipata la seconda), è facile osservare
che il richiamo al concetto di comunità richiede in concreto una robusta
pratica di welfare perché non sia una mera petizione di principio. Può essere doverosa
l’osservanza di regole comuni in nome di una concezione solidale, se però non
si dimentica di affrontare anche il problema della discriminazione esistente
oggi tra gli alunni in base alle condizioni soggettive. Di fatto, per alcuni il
cibo in classe rappresenta una spesa impossibile.
Certamente
il cibo ha un costo economico che comunque va sostenuto, e il rimedio ai
problemi sociali non può essere la sua gratuità generalizzata (a carico comunque
della collettività). Mantenendo il dovere di pagare questo servizio, è indispensabile
che il welfare tuteli le famiglie più povere: solo così anche la refezione
potrà diventare un momento di inclusione sociale all’interno del complessivo
trattamento scolastico.
La
strada da praticare, a proposito del cibo “fai da te“ non è la ricerca di una
soluzione ognuno per suo conto, in ordine sparso, con il proprio cibo
individuale, in una visione di estraneità alla scuola. La soluzione, ammoniva
don Lorenzo Milani, è «uscirne tutti insieme».
* Leggi La Voce di New York:
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