Racconti dedicati a figure moderne e antichissime. Evocano suggestioni e pongono
interrogativi. Oggi, l’astrofisico
Già pubblicati: L’attrice, Lo
scrittore.
di
Laura Maria Di Forti
Introduzione di Angelo Perrone
(ap) Antico quanto la storia
stessa, lo studio degli astri ha sempre tradito lo stupore verso un mondo, quello
celeste, percepito come tendente alla perfezione. Le sfere luminose lontane, le
orbite lunghissime, gli orizzonti planetari sconfinati: una dimensione tanto
sconosciuta quanto stupefacente, regolata da meccanismi precisi e sfuggenti. Forse
perfetta, o quasi, proprio perché piena di misteri. Da ammirare prima di imparare
a decifrarla. Da osservare con il timore che accompagna le cose grandi e
inesplorate, minacciose e incombenti.
Uno scenario imparagonabile alla
nostra terra, con le sue imperfezioni e malefatte, i confini scoperti, la sua
piccolezza: entità infinitesimale di fronte all’immenso. Né l’impressione è
mutata nel tempo, con il progredire delle conoscenze. Sappiamo molto di più: distinguiamo
le stelle dai pianeti, le galassie dalle nebulose, dagli asteroidi. Proviamo a
intrufolarci con i satelliti, cerchiamo di esplorare e capire il possibile.
Ma la lentezza si confronta con
la velocità estrema, la brevità confligge con il tempo e lo spazio
dell’universo. E’ uno scarto profondo tra possibilità e risultato, il mezzo e
il fine, che va oltre ogni calcolo umano. Senza per questo però ispirare
sfiducia e pessimismo, piuttosto attesa e sospensione emotiva.
L’uomo sperimenta una sete
insaziabile di conoscenze, che lo ha motivato per secoli, da quando stelle e
pianeti erano identificati con divinità arbitre del destino umano. Ma non
rinuncia ad accompagnare quel bisogno scientifico con la meraviglia dei gesti e
degli sguardi oltre sé stesso. Ogni nuova scoperta spaziale è espressione pure
di altro: esplorare l’universo e le sue regole per capire meglio chi siamo e dove
si stia andando tutti quanti.
“Che fai tu luna in ciel, dimmi
che fai silenziosa luna?”: quella di Giacomo Leopardi non è solo ansia di
informazioni su un pezzetto di universo che ci ruota attorno instancabile. Né
canto malinconico, e pur sublime, di un grande poeta. È domanda che racconta
l’inquietudine con cui l’uomo osserva ciò che non conosce, l’interrogarsi
ammirato. Forse persino la percezione di un filo sottile che unisce lui così
piccolo e fragile all’universo immensamente più grande: e che rappresenta,
chissà, il senso ultimo di tutto.
Quando ero piccolo credevo che la luna
camminasse con me, ossia mi seguisse ogniqualvolta decidessi di fare una
passeggiata. Mio padre mi spiegò una sera che era un effetto ottico.
Verso i dieci anni cercai di contare le
stelle. Mi trovavo in montagna, il cielo era pieno di punti luminosi, attorno
il buio della notte. Arrivai a trecentododici, ma ad un certo punto feci
confusione, ebbi paura di aver già contato un gruppo di dodici stelline apparse
quasi improvvisamente alla mia sinistra e allora desistetti. D'altronde,
pensai, quella che vedevo era solo una parte del cielo, non certo l’intero
universo!
Terminato il liceo mi sono iscritto ad
Astrofisica e Fisica dello spazio. Ora il mio lavoro consiste nel guardare il
cielo, quasi come un innamorato in cerca di ispirazione o di certezza. Lo
scruto, lo osservo e naturalmente lo catalogo.
In quanto ricercatore debbo studiare i
fenomeni, interpretarli, devo formulare delle teorie e, ovviamente,
dimostrarle. E tutto questo in fretta, correndo, cercando di arrivare per primo
a pubblicare un articolo che dia fama all'istituto e a tutta l’equipe
che mi supporta.
La competizione è un aspetto del mio
lavoro, il più antipatico, certo. E d'altronde noi tutti scienziati
siamo convinti di essere più bravi degli altri e non lavoriamo solo per amore
della scienza, ma per dimostrare che come noi non c’è nessuno. E infatti molti
miei colleghi sono degli arroganti e si credono infallibili, quando invece
certe teorie, che all'inizio sono sembrate verità sacrosante, dopo
qualche anno e dopo lo studio degli scienziati di altri istituiti, si sono
rivelate allucinazioni vere e proprie.
Bisogna essere umili, invece. Dobbiamo
studiare l’universo, non un ruscellino o un orto, e nemmeno una patata o un
pesciolino. Abbiamo a che fare con miliardi di pianeti e di stelle a una
distanza che ci dà il capogiro. Abbiamo di fronte l’infinito.
Quando scruto le stelle attraverso i
cannocchiali astronomici, ho l’impressione quasi di poterle toccare e che esse
sono lì, proprio in quel punto del cielo, solo per me. Ma poi mi ricordo di
quando le contavo e allora mi rendo conto che le stelle sono così tante che
nemmeno ora, con questi mezzi potenti di cui dispongo, mi è dato vederle
tutte.
No, l’universo è qualcosa di infinito e forse
l’uomo non saprà mai cosa significhi questa parola. È un concetto astratto e
quasi fa male al cuore il cercare di capirne il significato. Ci sono concetti
incomprensibili che trascendono l’umana ragione, che rimangono avvolti dal
mistero, dalla non comprensione.
Siamo esseri piccoli, infinitesimali
rispetto a questo universo davanti al quale i poeti hanno sognato e si sono
profusi in descrizioni e parole. Sì, solo parole, laddove noi scienziati
abbiamo bisogno di fatti, cerchiamo il certo, la teoria da sperimentare, da
provare senza ombra di dubbio.
E allora troviamo nuovi pianeti e li
cataloghiamo, cerchiamo altre stelle e ci domandiamo se sono già implose e
quando.
Talvolta credo che i nostri meravigliosi
cannocchiali altro non siano che strumenti di tortura, che noi non abbiamo il
diritto di curiosare tra le galassie e di numerare i pianeti.
Dovremmo limitarci a guardarli, forse, e
come i poeti rimanere a bocca aperta di fronte alla loro bellezza.
Non è conoscendo il numero esatto delle
stelle che potremo dire di possederle o di essere loro amico. Non possediamo
nulla, noi esseri umani.
Quando io guardo l’universo, penso che un
Dio, un Essere Superiore che tutta questa meraviglia ha creato, deve pure
esserci. Deve esserci un Dio che nella sua infinita sapienza ha progettato e ha
realizzato. Pensare che tutta questa meraviglia sia solo frutto del caso, beh,
sarebbe come pensare che i notturni di Chopin siano il risultato del tintinnio
di foglie sotto il vento autunnale.
Me ne rendo conto quando, come da bambino,
scruto il cielo nel buio della notte, solo, di fronte alla mia casa in montagna
dove il buio è completo e non ci sono distrazioni, voci o rumori.
Solo io e la natura. Solo io e il cielo.
Solo io e le stelle. E allora ho quasi paura, il timore di non essere in grado
di percepire il respiro di questo universo che vuole solo rispetto e amore.
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