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domenica 26 gennaio 2020

I tirabaci di Irene

Irene, che si era affaccendata a farsi bella, voleva fare colpo sugli avventori della mescita di paese

di Bianca Mannu
(Tratto dal libro Da Nonna Annetta, ed. La Riflessione, 2011)

Fin dal primo mattino il tempo del giorno parve segnato dal ticchettio delle scarpette dai tacchi alti e sottili di Irene. Ma il suo passo, ancorché vivace, risultava irregolare e nervoso sull’accidentato pavimento della lolla. Lei andava e veniva da una stanza all’altra recando canestrini e maioliche, più spesso, niente. E come frusciava la sua ampia gonna di “moiré” che sua sorella Ottilia le aveva cucito!
Faceva proprio un bel vedere la sua figura snella sulle gambe aggraziate. E sopra tutto quel blu, il faccino rotondo, pallido come quello di Rinuccio, ostentava una piccola bocca rossa e ben disegnata a incorniciare i dentini bianchi, regolarissimi. E io non sapevo capacitarmi del fatto che da quella boccuccia, contro ogni  speranza, uscisse invece una voce stentorea e scura, che non amavo.
S’era tanto affaccendata davanti a tutti gli specchi - specchietti, per la verità - per darsi un tocco di rosso e di belletto, ma specialmente per ricavare dal ciuffo anteriore dei capelli, tagliati “alla maschietta”, una sorta di baffo a C che doveva stare appiattito sulla fronte.
Nonna Annetta la bloccò vicino ai vetri. Stringendo le palpebre, la esaminò per alcuni istanti; poi fissandole la fronte e puntandoci l’indice sibilò: “Togliti questo tirabaci, sai! Se no, te lo levo con le cesoie”. A quella sonata Irene, già un po’ rinfrancata per aver quasi passato l’esame, si prese tra le dita il ciuffo incriminato e, a forza di tiratine con le dita umettate di saliva, se lo regolò in maniera meno impertinente.
Intanto le sue sorelle sgambettavano in ciabatte e grembiulone dietro i banchi della mescita, come se non la vedessero. Lei, però, vi si affacciava e, un po’ pavoneggiandosi, sostava sul gradino più alto, speranzosa di scorgere fra gli abituali avventori della mescita l’ospite o gli ospiti evidentemente attesi e, così parata, fare colpo.
Siccome non ravvisava nessuno e neppure voleva tornare dentro, per darsi un contegno si rivolgeva a sua sorella Dora intenta a servire: “S’è visto nessuno?”. Al no infastidito di Dora, voltava la schiena di scatto e ticchettava da un’altra parte, certo alla volta della finestra del salotto buono, da dove per un tratto poteva scorgere chiunque arrivasse.
Arrivò, invece, il boato repentino d’uno scoppio, avanti la curva, dove lo sguardo non poteva giungere, ma l’ansia del cuore, sì. E lei gridò senza vedere. E noi udimmo in sequenza lo scoppio e il grido. E poi fummo tutti sul selciato, come se avessimo trapassato i muri. E lei correva avanti a tutti, correva senza scarpe, sbattendo le ali della gonna come un uccello colpito a morte.
Qualcuno, ignoto, s’impadronì di me e per tranquillizzare il mio pianto, negava che fosse successo alcunché alla zia. Poi mi dimenticarono davanti a un focolare spento, dentro una cucina che non conoscevo, su un piccolo scranno di sambuco. Mi misero in mano una focaccia coi ciccioli, che detestavo.
La vecchia occupava il vano della porta aperta sulla strada. Il capannello si formava e si disfaceva. Delle facce si stagliavano controluce, curiose … “La nipotina,vero? Poverina! Spaventata? Mangia, mangia, che non è niente!”.  E intanto parlavano tra loro in sardo …
“Una burla voltata in tragedia” dicevano. “Rinuccio? Rinuccio, chi? Di Emma, Emma Sa ‘nzonca (La cornacchia) Ahn. Povero! E l’altro? Boh. Un soldato. Macché soldato, carabiniere! Ma chi è il morto, il soldato o il carabiniere? Rinuccio, meschino! Già era pallido di suo! Più bianco della sua camicia bianca! Gli occhi spalancati verso il cielo e la bocca volta in su, a sorridere… Meschino! E dire che non ha altro segno, se non un forellino scuro con una goccia di sangue nero aggrumato sul bordo, vicino all’attaccatura dei capelli …”.
E fu a quel punto che ricominciai a piangere, come se Rinuccio l’avessi ucciso io. Allora venne dentro tzia Carminetta, una donna grassa col faccione bonario. “Non piangere” - diceva in italiano. - “Tua zia non s’è fatta neppure un graffio. Io l’ho vista, sai!”. E nel dire, con una mano trascinò una sedia verso il crocchio, con l’altra mi tirò a sé e mi portò sul grembo. Il crocchio s’apri un poco … 
“La scura!”dissero a una voce, ma guardavano lei che già aveva ripreso a parlare in sardo con aria sicura. “Ma l’altro - povero lui! - mica l’ha fatto apposta. Impazzito sembrava. Niente voleva, se non scherzare … - Piangeva eh! - E vociava per chiamare a testimone Dio dello scherzo fatto – mai fatto l’avesse!- per significare all’amico che il matrimonio equivaleva a una pallottola cacciata sulla fronte … Come se non fosse figlio di mamma pure lui!”.

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