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sabato 1 febbraio 2020

Mastro Geppetto, la creatività del lavoro manuale

Dal film Pinocchio di Matteo Garrone
Essere artigiani. Da san Giuseppe, simbolo di sapienza, a Geppetto, espressione della capacità di plasmare la materia. Nel lavoro dell'artigiano, si intrecciano gesto manuale e intelligenza

 (ap) Quali sono le professioni più visibili nell’immaginario collettivo? E’ possibile precisare cosa attribuisca vivacità e rilevanza a ciascun lavoro e perché ciascuno di essi rimanga nella mente della gente? Stando ai media, lo sono certamente i medici, i poliziotti, gli insegnanti, e poi in genere la gente di spettacolo. Protagonisti di film, sceneggiati, opere teatrali, lavori televisivi. Interpretano personaggi che nel loro mestiere, e in certe situazioni, compiono gesti di rilievo, risolvono problemi, annullano momenti critici. Oppure semplicemente brillano nelle loro attività. In una parola, invertono il grigiore dell’esistenza.
Infatti la rappresentazione vuole che nel loro lavoro lascino spesso un segno: salvano vite, risolvono casi difficili, trasmettono messaggi importanti. Semplicemente, ma non da ultimo, rivestono ruoli che colpiscono l’immaginazione, il grande pubblico ne è ammirato. Storie di vita, salvezza e merito; eroi del quotidiano, uomini e donne capaci di trasformare la banalità di ogni giorno con i loro gesti, di togliere polvere alla fatuità delle ore qualsiasi.
Nella rassegna di arti e mestieri che mantengono un fascino non può mancare tuttavia la figura di altri lavoratori sociali, come gli artigiani. E per tutti, quella del falegname. Costoro conservano un posto in classifica, senza darlo troppo a vedere. Non spiccano per fama e notorietà, ma destano comunque ammirazione, soprattutto sollecitano curiosità, ci spingono a conoscerne il lavoro, magari ci inducono a comprarne i prodotti. I semplici artigiani, anche se bravi, rivestono un fascino più sottile e discreto di quello di tanti personaggi noti.
I processi di industrializzazione mettono in discussione la ragione d’essere e l’utilità pratica di queste forme di lavoro. L’e-commerce chiude i negozi di vicinato, e gli esercizi senza il supporto delle grandi reti commerciali. Figurarsi quelli degli artigiani. Eppure non mancano le sorprese: qualcosa continua a giustificare l’interesse per le botteghe artigianali, che nelle grandi città o in periferia resistono all’assalto delle catene di distribuzione. E dove gli artigiani residui possono continuare il loro lavoro. Che è poi quello di perpetuare, con un’energia che sa resistere al disinganno, l’eterno confronto tra la loro intelligenza e la materia che adoperano.
L’archetipo della figura del falegname, e in genere degli artigiani, è addirittura un santo, Giuseppe, patrono di questa categoria di lavoratori. Lo è in tutte le rappresentazioni pittoriche e simbologie artistiche tramandatesi nei secoli. Rappresentato sempre con i suoi umili e semplici attrezzi da lavoro, al bancone di legno, è il simbolo, a parte i significati trasmessi dalla tradizione religiosa cristiana, di secolari valori umani nel mondo del lavoro, che riescono a stare insieme: la manualità e l’autonomia della capacità imprenditoriale. L’uso sapiente delle mani e l’intelligenza della gestione accorta della propria operosità.
Appunto, i caratteri della bottega indipendente, struttura tipica dell’epoca rinascimentale, ma sorta già in precedenza quando l’uomo ha cominciato a lavorare le materie prime, il legno, il ferro, la pietra, e perpetuatasi poi nei secoli successivi, sino ad oggi, nonostante tante crisi e disavventure.
Ma, attingendo al mondo letterario, la stessa figura del falegname trova la sua rappresentazione simbolica più affascinante in mastro Geppetto, invenzione narrativa di Carlo Lorenzini, detto Collodi, raffigurato come un artigiano abile e sapiente, persino capace di compiere un miracolo: dare forma umana alla materia, sino a riuscire a modellare il piccolo Pinocchio, un burattino che racchiude nella sua vivacità le fantasie dei bambini di ogni epoca. Il burattino e Geppetto sono i protagonisti di un lungometraggio della Disney nel lontano 1940, poi di una struggente miniserie tv di Luigi Comencini nel 1972 e infine del magico film uscito in questi giorni, Pinocchio di Matteo Garrone, in cui Geppetto è impersonato con maestria e sagacia da Roberto Benigni.
Dalla storia alla letteratura, il mito di queste figure associa, in modo strettissimo, la manualità all’intelligenza, la sapienza dei gesti all’intuito della mente. A dispetto di tante stereotipate contrapposizioni tra la pratica e la teoria, sino al dissidio estremo tra il sapere scientifico e quello umanistico, la lezione che apprendiamo è che non c’è distanza tra l’abilità manuale e il pensiero. Non può esserci.
Il gesto e la mente si sviluppano insieme, si sostengono reciprocamente, trovano alimento l’uno nell’altro. Le mani si infiacchiscono senza i suggerimenti del cervello e solo grazie ad esso scoprono abilità sorprendenti. La mente si impoverisce senza le azioni pratiche che proprio il pensiero sa immaginare e riesce a produrre. In una parola, gesto e mente si confondono all’interno di quello stesso corpo che racchiude entrambi.
Perché stupirci di questa scoperta? Per capire come sono andate le cose, basterebbe riflettere sull’evoluzione dell’antropologia, dalla nascita del genere umano ad oggi, e trarne le giuste considerazioni. In fondo, il passaggio fondamentale è avvenuto proprio quando l’uomo-scimmia ha cessato di usare le mani per muoversi sul terreno.
Gli arti superiori, liberati da quella funzione servente, erano a disposizione per nuovi strabilianti usi sotto l’impulso della mente: da allora è stato un progredire della capacità di utilizzare le mani per plasmare la materia, darle ordine, trasformarla a proprio beneficio. Sino al sogno di trasformare la materia grezza e darle ciò che ancora le manca, l’anima, come riuscì a Geppetto con il suo Pinocchio.
Nell’era digitale, della superconnessione, della trasformazione di ogni strumento in un device capace di stupefacenti esorcismi, Arthur Lockmann, che è filosofo-scrittore divenuto per scelta esistenziale carpentiere, è riuscito a scrivere un elogio dell’arte della manualità e delle cose che ne sono al servizio, come il legno, il martello, le viti, a partire naturalmente dagli abeti, dalle querce, e da tutte le altre componenti naturali da cui tutto ha origine (Lockmann, La lezione del legno, Ponte alle Grazie, 2020).
Un saggio filosofico, senza alcuna nostalgia per i bei tempi andati. Una riflessione per nulla attraversata dal rifiuto delle conquiste moderne che hanno liberato l’uomo dalle fatiche quotidiane. Nessun tentativo di innaturale materializzazione dell’esistenza. Al contrario, il recupero di una spiritualità più profonda. Attraverso la riscoperta del sapere sconosciuto che è insito nella manualità dell’uomo, la valorizzazione delle idee che si realizzano per mezzo di strumenti sempre usati, tuttora validi ed utilizzati.
Ciò che continua a sfidare il tempo, anche nel lavoro artigiano, non è la grezza materia dei campanili che ammiriamo, degli edifici in cui viviamo, degli arnesi che adoperiamo, tutti destinati a corrompersi ed essere sostituiti da altro. Piuttosto è l’ingegno dei tanti incastri che siamo riusciti a realizzare mentre costruivamo quelle opere, che alla fine segna il primato della mente su ogni cosa, costituisce l’indispensabile guida della nostra manualità. L’etica del lavoro ben fatto si fonda alla fine sulla genialità delle soluzioni che abbiamo saputo inventare nel tempo, capace di dare vita a tanti risultati stupefacenti.

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