Dal film Pinocchio di Matteo Garrone |
Essere artigiani. Da san Giuseppe, simbolo di sapienza, a Geppetto, espressione della capacità di plasmare la
materia. Nel lavoro dell'artigiano, si
intrecciano gesto manuale e intelligenza
(ap) Quali sono le professioni più visibili
nell’immaginario collettivo? E’ possibile precisare cosa attribuisca vivacità e
rilevanza a ciascun lavoro e perché ciascuno di essi rimanga nella mente della
gente? Stando ai media, lo sono
certamente i medici, i poliziotti, gli insegnanti, e poi in genere la gente di
spettacolo. Protagonisti di film, sceneggiati, opere teatrali, lavori televisivi.
Interpretano personaggi che nel loro mestiere, e in certe situazioni, compiono
gesti di rilievo, risolvono problemi, annullano momenti critici. Oppure
semplicemente brillano nelle loro attività. In una parola, invertono il grigiore
dell’esistenza.
Infatti la rappresentazione
vuole che nel loro lavoro lascino spesso un segno: salvano vite, risolvono casi
difficili, trasmettono messaggi importanti. Semplicemente, ma non da ultimo,
rivestono ruoli che colpiscono l’immaginazione, il grande pubblico ne è
ammirato. Storie di vita, salvezza e merito; eroi del quotidiano, uomini e
donne capaci di trasformare la banalità di ogni giorno con i loro gesti, di
togliere polvere alla fatuità delle ore qualsiasi.
Nella rassegna di arti e
mestieri che mantengono un fascino non può mancare tuttavia la figura di altri
lavoratori sociali, come gli artigiani. E per tutti, quella del falegname. Costoro
conservano un posto in classifica, senza darlo troppo a vedere. Non spiccano
per fama e notorietà, ma destano comunque ammirazione, soprattutto sollecitano
curiosità, ci spingono a conoscerne il lavoro, magari ci inducono a comprarne i
prodotti. I semplici artigiani, anche se bravi, rivestono un fascino più
sottile e discreto di quello di tanti personaggi noti.
I processi di
industrializzazione mettono in discussione la ragione d’essere e l’utilità
pratica di queste forme di lavoro. L’e-commerce chiude i negozi di vicinato, e gli
esercizi senza il supporto delle grandi reti commerciali. Figurarsi quelli
degli artigiani. Eppure non mancano le sorprese: qualcosa continua a
giustificare l’interesse per le botteghe artigianali, che nelle grandi città o
in periferia resistono all’assalto delle catene di distribuzione. E dove gli artigiani
residui possono continuare il loro lavoro. Che è poi quello di perpetuare, con
un’energia che sa resistere al disinganno, l’eterno confronto tra la loro
intelligenza e la materia che adoperano.
L’archetipo della figura del
falegname, e in genere degli artigiani, è addirittura un santo, Giuseppe,
patrono di questa categoria di lavoratori. Lo è in tutte le
rappresentazioni pittoriche e simbologie artistiche tramandatesi nei secoli. Rappresentato
sempre con i suoi umili e semplici attrezzi da lavoro, al bancone di legno, è
il simbolo, a parte i significati trasmessi dalla tradizione religiosa cristiana,
di secolari valori umani nel mondo del lavoro, che riescono a stare insieme: la
manualità e l’autonomia della capacità imprenditoriale. L’uso sapiente delle
mani e l’intelligenza della gestione accorta della propria operosità.
Appunto, i caratteri della bottega
indipendente, struttura tipica dell’epoca rinascimentale, ma sorta già in
precedenza quando l’uomo ha cominciato a lavorare le materie prime, il legno,
il ferro, la pietra, e perpetuatasi poi nei secoli successivi, sino ad oggi,
nonostante tante crisi e disavventure.
Ma, attingendo al mondo
letterario, la stessa figura del falegname trova la sua rappresentazione
simbolica più affascinante in mastro Geppetto, invenzione narrativa di Carlo
Lorenzini, detto Collodi, raffigurato come un artigiano abile e sapiente, persino
capace di compiere un miracolo: dare forma umana alla materia, sino a riuscire
a modellare il piccolo Pinocchio, un burattino che racchiude nella sua vivacità
le fantasie dei bambini di ogni epoca. Il burattino e Geppetto sono i protagonisti
di un lungometraggio della Disney nel lontano 1940, poi di una struggente miniserie
tv di Luigi Comencini nel 1972 e infine del magico film uscito in questi
giorni, Pinocchio di
Matteo Garrone, in cui Geppetto è impersonato con maestria e sagacia da Roberto
Benigni.
Dalla storia alla
letteratura, il mito di queste figure associa, in modo strettissimo, la
manualità all’intelligenza, la sapienza dei gesti all’intuito della mente. A
dispetto di tante stereotipate contrapposizioni tra la pratica e la teoria,
sino al dissidio estremo tra il sapere scientifico e quello umanistico, la
lezione che apprendiamo è che non c’è distanza tra l’abilità manuale e il
pensiero. Non può esserci.
Il gesto e la mente si
sviluppano insieme, si sostengono reciprocamente, trovano alimento l’uno nell’altro.
Le mani si infiacchiscono senza i suggerimenti del cervello e solo grazie ad
esso scoprono abilità sorprendenti. La mente si impoverisce senza le azioni
pratiche che proprio il pensiero sa immaginare e riesce a produrre. In una
parola, gesto e mente si confondono all’interno di quello stesso corpo che
racchiude entrambi.
Perché stupirci di questa
scoperta? Per capire come sono andate le cose, basterebbe riflettere
sull’evoluzione dell’antropologia, dalla nascita del genere umano ad oggi, e
trarne le giuste considerazioni. In fondo, il passaggio fondamentale è avvenuto
proprio quando l’uomo-scimmia ha cessato di usare le mani per muoversi sul
terreno.
Gli arti superiori, liberati
da quella funzione servente, erano a disposizione per nuovi strabilianti usi
sotto l’impulso della mente: da allora è stato un progredire della capacità di
utilizzare le mani per plasmare la materia, darle ordine, trasformarla a
proprio beneficio. Sino al sogno di trasformare la materia grezza e darle ciò
che ancora le manca, l’anima, come riuscì a Geppetto con il suo Pinocchio.
Nell’era digitale, della
superconnessione, della trasformazione di ogni strumento in un device capace di
stupefacenti esorcismi, Arthur Lockmann, che è filosofo-scrittore divenuto per
scelta esistenziale carpentiere, è riuscito a scrivere un elogio dell’arte
della manualità e delle cose che ne sono al servizio, come il legno, il
martello, le viti, a partire naturalmente dagli abeti, dalle querce, e da tutte
le altre componenti naturali da cui tutto ha origine (Lockmann,
La lezione del legno, Ponte alle
Grazie, 2020).
Un saggio filosofico, senza
alcuna nostalgia per i bei tempi andati. Una riflessione per nulla attraversata
dal rifiuto delle conquiste moderne che hanno liberato l’uomo dalle fatiche
quotidiane. Nessun tentativo di innaturale materializzazione dell’esistenza. Al
contrario, il recupero di una spiritualità più profonda. Attraverso la
riscoperta del sapere sconosciuto che è insito nella manualità dell’uomo, la
valorizzazione delle idee che si realizzano per mezzo di strumenti sempre
usati, tuttora validi ed utilizzati.
Ciò che continua a sfidare
il tempo, anche nel lavoro artigiano, non è la grezza materia dei campanili che
ammiriamo, degli edifici in cui viviamo, degli arnesi che adoperiamo, tutti
destinati a corrompersi ed essere sostituiti da altro. Piuttosto è l’ingegno
dei tanti incastri che siamo riusciti a realizzare mentre costruivamo quelle
opere, che alla fine segna il primato della mente su ogni cosa, costituisce
l’indispensabile guida della nostra manualità. L’etica del lavoro ben fatto si
fonda alla fine sulla genialità delle soluzioni che abbiamo saputo inventare
nel tempo, capace di dare vita a tanti risultati stupefacenti.
Bellissima
RispondiEliminaGrazie Liana