di
Marina Zinzani
(Tratto
da “I racconti dell’acqua”)
(Commento di Angelo Perrone)
(ap) Chi l’avrebbe
immaginato che, quella sera, sarebbe andata storta l’ordinazione delle bevande?
Eppure accade in una cena organizzata dalle famiglie per festeggiare il fidanzamento
dei loro giovani. Tutto deve andare liscio, è il momento di convenevoli,
formalità, nel segno della spontaneità. Sembra anche facile, tutti vogliono la
stessa cosa, semplice acqua. Non basta. Nessuno uguale all’altro. Gassata, non
gassata, naturale, fredda. Può sorgere qualche inconveniente, con tutte le cose
da fare.
C’è confusione, il
risultato è un pasticcio, e non viene accontentata proprio la festeggiata, che ha
una reazione eccessiva, si spazientisce, è sgarbata. Chi ci rimette è il povero
cameriere, una persona anziana, che non è stata dietro ai desideri di tutti i
clienti. Per la madre dello sposo, un campanello d’allarme, anche questo forse
eccessivo: la nuora ha un cattivo carattere, povero figlio mio!, può fare polpette
di lui quando si sposa. Ma la reazione dipende pure da altro, ci sono i ricordi
della donna, che si rivede nei panni del cameriere, perché anche lei a suo
tempo l’ha fatto.
L’acqua – in questo
caso la semplice bevanda ordinata - è lo spunto per una riflessione sul
carattere della giovane nuora, e, attraverso questa, l’occasione per uno
sguardo ulteriore su sé stesso. Indietro, nel presente. La vita, i disagi, i
timori che l’accompagnano, specie riguardo al rapporto con il figlio. Ritorna
il tema dell’acqua come specchio delle proprie emozioni, in un certo senso come
ripetizione dell’immagine personale.
Ognuno è un eterno
Narciso che rivede altrove sé stesso, ma diversamente da quello, prova una
varietà di sentimenti: non solo ammirazione, ma sorpresa, sgomento,
preoccupazione. Si spezza all’improvviso la sincronia interna che fin qui ha dato
equilibrio regalando serenità almeno apparente. Subentra una crisi che coincide
con lo sdoppiamento della percezione di sé. Cos’è quel riflesso che vediamo
altrove? Solo ombra sfuggente, o parte della nostra stessa realtà?
Elisa aveva una voce esile. Aveva anche un corpo esile. E un
carattere timido, che mal si accoppiava al temperamento estroverso del marito.
Si guardava alla specchio, dovevano uscire a cena e lei non
sapeva se aveva scelto l’abbigliamento giusto, un paio di pantaloni neri, una
maglietta nera e una giacca beige. Aveva indossato anche una collana di perle,
quella che indossava nelle grandi occasioni. E una grande occasione la viveva
proprio quella sera: dovevano andare al ristorante, dove ci sarebbe stata
Camilla con la sua famiglia. Camilla era la ragazza di suo figlio Marco, non
l’aveva ancora conosciuta, e le presentazioni ufficiali sarebbero avvenute
proprio quella sera.
Suo figlio era molto innamorato di quella ragazza, si
capiva, e ora diventava ufficiale la loro storia, sarebbero stati fidanzati e
c’era ad attenderli un futuro assieme. Marco era figlio unico, e lei non voleva
essere certo la classica suocera, che vede nella nuora una rivale: no, non le
sopportava questo genere di situazioni. Le avrebbe voluto bene come a una
figlia, la figlia femmina che non aveva avuto.
Il ristorante era di buon gusto, un luogo raffinato Era
stato scelto da Camilla, e si prestava bene ad una serata di presentazioni, di
discorsi fra il timido e l’imbarazzato, fra convenevoli e la ricerca di una
forma di spontaneità.
I genitori di Camilla le sembrarono simpatici, iniziarono
subito a parlare. La ragazza si era seduta davanti a lei, aveva i capelli
lunghi e la frangia. Suo figlio era un bel ragazzo, e non perché lo vedesse con
gli occhi di una madre, ma perché lo dicevano tutti, e con gli anni si era
fatto più bello: forse la leggera barba, gli occhiali giusti. Era più bello di
Camilla. Pensieri di una madre, pensieri inopportuni, di cui si pentì subito.
Elisa faceva fatica a parlare, la sua innata timidezza la
metteva a disagio da sempre, ma doveva anche lei entrare nella conversazione,
erano i genitori della fidanzata di suo figlio, era la futura nuora molto
probabilmente: ecco, doveva farsi forza e chiedere, parlare, essere sciolta
come loro.
Seduti in un tavolo appartato del ristorante, arrivò subito
il cameriere e prese le ordinazioni, dei primi, un po’ di affettati e formaggi,
un buon vino, e dell’acqua. Camilla chiese una bottiglia d’acqua naturale a
temperatura ambiente, il marito di Elisa invece la chiese gassata fredda, poi
si inserì la madre della ragazza e disse che anche a lei andava bene gassata ma
non fredda.
Chissà se era per queste voci, una sull’altra, di fatto il
cameriere poco dopo arrivò con due bottiglie di acqua gassata.
“Io la volevo naturale” disse decisa la ragazza.
“Adesso te la cambia” sussurrò Elisa, cercando con gli occhi
il cameriere.
Il volto seccato di Camilla, il tono un po’ antipatico
usato. Tornò il cameriere, e la ragazza fece la sua rimostranza, la volevo
naturale, ripeté.
Poco dopo il cameriere tornò, e mise in tavola una bottiglia
d’acqua naturale, e si allontanò. Camilla la tastò con la mano, era fredda.
“Oh, questo non ha proprio capito, ormai bisogna andare a
scuola anche per capire un’ordinazione!” disse la ragazza.
Il cameriere fu richiamato con un cenno dal padre di lei.
“Guardi, mia figlia aveva chiesto acqua a temperatura
ambiente”
Il cameriere, che era anziano, si scusò e portò in tavola la
bottiglia giusta.
La serata trascorse fra cibo insapore, risposte di Elisa a
domande della madre della ragazza. Lavora? Cosa fa? Dove siete andati
quest’anno in vacanza?
Elisa rispondeva, ma le si stava spalancando un mondo. Aveva
fatto la cameriera da ragazza, e non aveva gradito l’atteggiamento di Camilla
verso quell’uomo che aveva servito a tavola. Lo immaginò, tutto il giorno a
camminare su e giù sperando in una pensione che era sempre più lontana, non più
veloce e sveglio come una volta.
E immaginò Camilla, improvvisamente era come se si fosse
aperta una finestra e ne intuisse il carattere, abbastanza viziata da essere
antipatica, abituata a trattare la gente in un certo modo, la immaginò protetta
nella sua famiglia benestante.
E immaginò suo figlio, succube di lei, succube di lei. Una
nota malinconica la colse: era una cena d’addio quella, di un figlio verso la
madre. Ora un’altra donna era entrata nella sua vita e ne avrebbe forse cambiato
il carattere, i rapporti con la sua famiglia d’origine.
Malinconia e solitudine: rivide il figlio appena nato, fra
le sue braccia, lo rivide salire sulla sua prima bicicletta, lo rivide con il
ginocchio sbucciato dopo una partita di calcio, era piccolo, era in qualche
modo suo, il suo cucciolo. Poi gli anni avevano cambiato gli scenari, ma lui
era rimasto la sua creatura, la sua gioia, il suo respiro. Fino a qualche ora
prima.
Perché la ragazza che aveva davanti, lo sentiva così bene,
avrebbe alterato tutto, il rapporto che c’era. Doveva ritirarsi, come tante
madri, ma era così sgradevole vedere le cose in questo modo.
La vita piena con un figlio le apparve per un momento una
vita vuota, un nido vuoto, un’esistenza vuota di cose non coltivate per se
stessa, con tutte le energie dirette a lui, in una sola direzione. Sensazioni,
mentre guardava Camilla versarsi l’acqua naturale nel bicchiere.
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