giovedì 16 aprile 2020

Serata al ristorante

di Marina Zinzani
(Tratto da “I racconti dell’acqua”)
(Commento di Angelo Perrone)

(ap) Chi l’avrebbe immaginato che, quella sera, sarebbe andata storta l’ordinazione delle bevande? Eppure accade in una cena organizzata dalle famiglie per festeggiare il fidanzamento dei loro giovani. Tutto deve andare liscio, è il momento di convenevoli, formalità, nel segno della spontaneità. Sembra anche facile, tutti vogliono la stessa cosa, semplice acqua. Non basta. Nessuno uguale all’altro. Gassata, non gassata, naturale, fredda. Può sorgere qualche inconveniente, con tutte le cose da fare.
C’è confusione, il risultato è un pasticcio, e non viene accontentata proprio la festeggiata, che ha una reazione eccessiva, si spazientisce, è sgarbata. Chi ci rimette è il povero cameriere, una persona anziana, che non è stata dietro ai desideri di tutti i clienti. Per la madre dello sposo, un campanello d’allarme, anche questo forse eccessivo: la nuora ha un cattivo carattere, povero figlio mio!, può fare polpette di lui quando si sposa. Ma la reazione dipende pure da altro, ci sono i ricordi della donna, che si rivede nei panni del cameriere, perché anche lei a suo tempo l’ha fatto.
L’acqua – in questo caso la semplice bevanda ordinata - è lo spunto per una riflessione sul carattere della giovane nuora, e, attraverso questa, l’occasione per uno sguardo ulteriore su sé stesso. Indietro, nel presente. La vita, i disagi, i timori che l’accompagnano, specie riguardo al rapporto con il figlio. Ritorna il tema dell’acqua come specchio delle proprie emozioni, in un certo senso come ripetizione dell’immagine personale.
Ognuno è un eterno Narciso che rivede altrove sé stesso, ma diversamente da quello, prova una varietà di sentimenti: non solo ammirazione, ma sorpresa, sgomento, preoccupazione. Si spezza all’improvviso la sincronia interna che fin qui ha dato equilibrio regalando serenità almeno apparente. Subentra una crisi che coincide con lo sdoppiamento della percezione di sé. Cos’è quel riflesso che vediamo altrove? Solo ombra sfuggente, o parte della nostra stessa realtà?

Elisa aveva una voce esile. Aveva anche un corpo esile. E un carattere timido, che mal si accoppiava al temperamento estroverso del marito.
Si guardava alla specchio, dovevano uscire a cena e lei non sapeva se aveva scelto l’abbigliamento giusto, un paio di pantaloni neri, una maglietta nera e una giacca beige. Aveva indossato anche una collana di perle, quella che indossava nelle grandi occasioni. E una grande occasione la viveva proprio quella sera: dovevano andare al ristorante, dove ci sarebbe stata Camilla con la sua famiglia. Camilla era la ragazza di suo figlio Marco, non l’aveva ancora conosciuta, e le presentazioni ufficiali sarebbero avvenute proprio quella sera.
Suo figlio era molto innamorato di quella ragazza, si capiva, e ora diventava ufficiale la loro storia, sarebbero stati fidanzati e c’era ad attenderli un futuro assieme. Marco era figlio unico, e lei non voleva essere certo la classica suocera, che vede nella nuora una rivale: no, non le sopportava questo genere di situazioni. Le avrebbe voluto bene come a una figlia, la figlia femmina che non aveva avuto.
Il ristorante era di buon gusto, un luogo raffinato Era stato scelto da Camilla, e si prestava bene ad una serata di presentazioni, di discorsi fra il timido e l’imbarazzato, fra convenevoli e la ricerca di una forma di spontaneità.
I genitori di Camilla le sembrarono simpatici, iniziarono subito a parlare. La ragazza si era seduta davanti a lei, aveva i capelli lunghi e la frangia. Suo figlio era un bel ragazzo, e non perché lo vedesse con gli occhi di una madre, ma perché lo dicevano tutti, e con gli anni si era fatto più bello: forse la leggera barba, gli occhiali giusti. Era più bello di Camilla. Pensieri di una madre, pensieri inopportuni, di cui si pentì subito.
Elisa faceva fatica a parlare, la sua innata timidezza la metteva a disagio da sempre, ma doveva anche lei entrare nella conversazione, erano i genitori della fidanzata di suo figlio, era la futura nuora molto probabilmente: ecco, doveva farsi forza e chiedere, parlare, essere sciolta come loro.
Seduti in un tavolo appartato del ristorante, arrivò subito il cameriere e prese le ordinazioni, dei primi, un po’ di affettati e formaggi, un buon vino, e dell’acqua. Camilla chiese una bottiglia d’acqua naturale a temperatura ambiente, il marito di Elisa invece la chiese gassata fredda, poi si inserì la madre della ragazza e disse che anche a lei andava bene gassata ma non fredda.
Chissà se era per queste voci, una sull’altra, di fatto il cameriere poco dopo arrivò con due bottiglie di acqua gassata.
“Io la volevo naturale” disse decisa la ragazza.
“Adesso te la cambia” sussurrò Elisa, cercando con gli occhi il cameriere.
Il volto seccato di Camilla, il tono un po’ antipatico usato. Tornò il cameriere, e la ragazza fece la sua rimostranza, la volevo naturale, ripeté.
Poco dopo il cameriere tornò, e mise in tavola una bottiglia d’acqua naturale, e si allontanò. Camilla la tastò con la mano, era fredda.
“Oh, questo non ha proprio capito, ormai bisogna andare a scuola anche per capire un’ordinazione!” disse la ragazza.
Il cameriere fu richiamato con un cenno dal padre di lei.
“Guardi, mia figlia aveva chiesto acqua a temperatura ambiente”
Il cameriere, che era anziano, si scusò e portò in tavola la bottiglia giusta.
La serata trascorse fra cibo insapore, risposte di Elisa a domande della madre della ragazza. Lavora? Cosa fa? Dove siete andati quest’anno in vacanza?
Elisa rispondeva, ma le si stava spalancando un mondo. Aveva fatto la cameriera da ragazza, e non aveva gradito l’atteggiamento di Camilla verso quell’uomo che aveva servito a tavola. Lo immaginò, tutto il giorno a camminare su e giù sperando in una pensione che era sempre più lontana, non più veloce e sveglio come una volta.
E immaginò Camilla, improvvisamente era come se si fosse aperta una finestra e ne intuisse il carattere, abbastanza viziata da essere antipatica, abituata a trattare la gente in un certo modo, la immaginò protetta nella sua famiglia benestante.
E immaginò suo figlio, succube di lei, succube di lei. Una nota malinconica la colse: era una cena d’addio quella, di un figlio verso la madre. Ora un’altra donna era entrata nella sua vita e ne avrebbe forse cambiato il carattere, i rapporti con la sua famiglia d’origine.
Malinconia e solitudine: rivide il figlio appena nato, fra le sue braccia, lo rivide salire sulla sua prima bicicletta, lo rivide con il ginocchio sbucciato dopo una partita di calcio, era piccolo, era in qualche modo suo, il suo cucciolo. Poi gli anni avevano cambiato gli scenari, ma lui era rimasto la sua creatura, la sua gioia, il suo respiro. Fino a qualche ora prima.
Perché la ragazza che aveva davanti, lo sentiva così bene, avrebbe alterato tutto, il rapporto che c’era. Doveva ritirarsi, come tante madri, ma era così sgradevole vedere le cose in questo modo.
La vita piena con un figlio le apparve per un momento una vita vuota, un nido vuoto, un’esistenza vuota di cose non coltivate per se stessa, con tutte le energie dirette a lui, in una sola direzione. Sensazioni, mentre guardava Camilla versarsi l’acqua naturale nel bicchiere.

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