di
Paolo Brondi
La
dissonanza che, nella musica, nella letteratura, nelle arti in genere, è il
segno della molteplicità caotica, del pensiero debole, del non senso della
realtà, può essere anche la categoria che ci aiuta a caratterizzare certi
accadimenti politici.
Dissonante appare il gioco politico quando si fa difficile, problematico, conflittuale, incapace di fermarsi all’evidenza, scivolando sempre più spesso nel melodramma di scontri all’insegna di passioni assolute o della magniloquente retorica di parole solenni; o quando trasforma gli eventi in commedia, senza avvedersi che, nella commedia, prima o poi cala il sipario.
Dissonante appare il gioco politico quando si fa difficile, problematico, conflittuale, incapace di fermarsi all’evidenza, scivolando sempre più spesso nel melodramma di scontri all’insegna di passioni assolute o della magniloquente retorica di parole solenni; o quando trasforma gli eventi in commedia, senza avvedersi che, nella commedia, prima o poi cala il sipario.
E,
come un tipo di musica procede incautamente verso la stonatura, la disarmonia
e, in definitiva, verso la propria negazione, così la prevalente e duratura
disarmonia politica equivale a malattia ed esaurimento della politica stessa.
Nel tempo in cui una certa politica si scompone nella catastrofe della sua
negazione, le voci si abbrutiscono nell’anti melodramma del grigiore dei
pronunciamenti, nella monotonia della sfilza di promesse senza ornamento e,
soprattutto, con il nulla come referente. Forse quelle voci sono l’eco della
dissonanza che nasce non dalla neutralità delle cose, ma dal profondo della
natura umana e del suo universo inconosciuto. Per converso, la risoluzione
della dissonanza significa riconquistare, parafrasando Nietzsche, il “grande
stile” della politica, come capacità di comporre la molteplicità conflittuale
dei fenomeni e dei problemi in una sintesi unitaria e predittiva di
significato.
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