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Bisaccia (AV) in Irpinia |
Nei borghi e nelle aree
interne, un drammatico spopolamento, e la
fine di molte attività economiche; si disperde quel senso di identità
che ha caratterizzato intere comunità per tanto tempo. Non è solo questione di investimenti, ma della
capacità di elaborare una visione del futuro per rammendare
il tessuto intero del paese, dalle città alle periferie, e migliorare la
qualità del vivere sociale
Un poeta e la politica
(ap *) Una
lettera al premier Giuseppe Conte. A scriverla non un politico o un
economista, ma un poeta, Franco Arminio, da Bisaccia, nell’Avellinese, un uomo
di cultura del profondo Sud, conosciuto per aver raccontato la vita di piccoli
borghi italiani, a cominciare da quelli meridionali.
Che avrà mai un poeta da dire al
presidente del Consiglio, in un momento così complicato della vita politica del
paese? In una fase in cui è tanto difficile trovare la quadra tra flax tax,
riforma delle pensioni, e reddito di cittadinanza; cifre economiche dalla
consistenza gassosa e liti continue con l’Europa?
Certo, lo spunto apparente è una
sorta di “vicinanza regionale” con Conte per le sue origini pugliesi, un
dialogo a distanza tra quasi conterranei, e infatti l’idea della lettera è
venuta percorrendo una strada non lontana dal paese dove abitano ancora i suoi
parenti, quella che congiunge le piccole realtà di Carlantino in Puglia e
Colletorto in Molise.
Ma il contenuto della missiva va
oltre questa associazione di idee, sollecita una riflessione sulle campagne
italiane che si spopolano, sulla perdita di identità in tanti paesi, su quanto stiamo
smarrendo ogni giorno. Di più: sul senso del vivere in una comunità, ovunque si
trovi. Uno sguardo a 360 gradi perché, come ha
scritto Franco Arminio in una poesia, abbiamo bisogno di “gente che sa fare
il pane” ma anche di quella che “ama gli alberi e sa riconoscere il vento”; in
una parola: di contadini e di poeti.
Lo spopolamento di tanti borghi
Una strada poco trafficata, quasi
deserta, quella provinciale percorsa dal poeta in viaggio verso il Molise, senza
molti segni che indichino delle attività lavorative, niente capannoni,
magazzini, poche pompe di benzina. Come tanti altri territori, che si
incontrano appena usciti dagli agglomerati urbani non solo al Sud. A volte
basta percorrere una manciata di chilometri, soprattutto verso le alture delle montagne,
per scorgere i segni di abbandono in tante zone. Una strada, dunque, con un
valore simbolico rispetto alle condizioni di molte aree del paese.
Sono luoghi di campagna e pure di
mare, con una sensazione di vuoto e di sperdimento, che esprime un fascino inconfondibile
per il silenzio che accompagna e circonda ambienti di inestimabile bellezza, ma
che segnala anche un processo inarrestabile di spopolamento di territori una
volta ricchi di iniziative o comunque di vita sociale.
Siamo indifferenti verso questi
luoghi, perché l’immagine della urbanizzazione ci è più familiare, e ci sembra
anche migliore portatrice di progresso, viatico privilegiato verso il futuro.
Almeno prima di scoprirne tutte le incongruenze e contraddizioni.
Solo un poeta poteva rinunciare
alla facile, e in sé sacrosanta, idea di sottolineare la necessità di stanziare
più soldi per risollevare tante realtà. Certo servono finanziamenti, utili e
indispensabili, ma c’è anche altro, ancora più importante e necessario. Da cui
può derivare poi la spinta verso una politica di investimenti strutturali.
Idee per rinascere
E Franco Arminio prova a
racchiudere questa idea nella sorprendente proposta di “spargere buone dicerie”
sui borghi in via di spopolamento. Una idea che si potrebbe applicare ovunque,
al meridione così sfiduciato ma anche a tante zone del nord, pure più solerte. Sì,
perché esistono anche queste, le “dicerie buone”, non solo pregiudizi,
lamentele, risentimenti, o pessima fama. E non si tratta semplicemente di
“voci”, banali chiacchiere, sterili illusioni, sia pure stavolta ispirate a
intendimenti positivi anziché a senso di svalutazione. Al contrario, il
richiamo è diretto a suggerire atteggiamenti concreti.
Un esempio? Raccontare che
terreni dalle buone qualità naturali possano ancora offrire molto all’agricoltura
moderna. Con tanti sacrifici certo, ma non minori di quelli che deve affrontare
un precario in cerca di lavoro come cameriere nei paesi europei. Pensare che
tanti borghi potrebbero ospitare iniziative pubbliche dall’alto valore
simbolico, come primo passo sulla strada di un risveglio collettivo.
Contrastare l’idea che un
terremoto, con la distruzione delle case, porti necessariamente con sé la fine
di una comunità. Tornare ad apprezzare la semplicità delle piccole dimensioni,
cogliendo l’occasione di comprare immobili sul mercato a prezzi ridotti.
Ribellarsi civilmente al paesaggio delle “porte chiuse” nelle strutture
tradizionali: farmacie, uffici postali, negozi, scuole; e in cui occorrono ore
per andare a comprare una medicina, pagare una bolletta, frequentare la scuola.
Il problema più urgente, in
queste realtà, non sembra quello di dare sussidi ai tanti disoccupati, né
quello di incoraggiare i pensionamenti con il miraggio di offrire lavoro alle nuove
leve. Ci sono anche proposte di segno diverso e a costo zero, che non creano
peso sul debito: le più appetibili in tempi grami, se ci fosse al riguardo un
po’ di attenzione e di sensibilità. E anche le più efficaci alla lunga perché rivolte
alle radici dei processi di desertificazione del paese.
Rammendare il tessuto sociale
Ci sono molte ragioni di
avvilimento nella vita sociale, e i piccoli borghi le vivono in pieno prima
ancora delle realtà urbane capaci di mascherare meglio tante difficoltà nel
vivere quotidiano. Lì la perdita del senso di socialità si manifesta prima che
altrove con la rarefazione della stessa popolazione e delle sue attività
lavorative.
Non si tratta naturalmente di
tornare indietro nel tempo, di rinchiudersi nella nostalgia del bel mondo
antico, che poi non è mai esistito davvero, né di idealizzarlo dimenticando che
era fatto di fatiche e sofferenze, ma di provare a coltivare una visione del
mondo in cui l’unica soluzione del vivere non sia solo la città, senza per
questo esaltare l’idillio della periferia. Provare a costruire un tessuto più
articolato, fatto di mille realtà diverse, ricche di vitalità, che magari provano
a darsi una mano tra loro. Perché, ovunque siamo, abbiamo bisogno delle stesse
cose: il silenzio e la voce, la fragilità e la forza.
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