mercoledì 29 giugno 2016

Otto, postino ribelle

di Paolo Brondi
(Commento a Ingeborg Bachmann, Malina, Adelphi, 2003)

Preziosa ed ancora oggi profetica è la produzione in versi e prosa di Ingeborg Bachmann (1926-1973, foto), per farci immaginare, ed ancor più per difendere, un modello di cultura non dogmatica o monolitica, ma dialettica e polemica: la cultura che ha la voce dell’intelligenza e del sentimento. Una voce capace di rompere il gelo, il silenzio, l’indifferenza che spesso dilaga fra i più, causa la restrizione delle opinioni e delle scelte entro isole d’interesse egoistico e pregne di scontati pregiudizi.
Ne costituisce esempio l’emblematica storia del postino Otto Kranewitzer (cfr. I. Bachmann, Malina, Adelphi 2003). Costui, dopo lunghi anni d’esemplare e preciso servizio, si scopre improvvisamente mosso da una scelta improrogabile: interrompere lo smistamento e la consegna della corrispondenza per conservarla integra in una sua esigua stanzetta, facendole spazio anche con il sacrificio del suo mobilio. Scoperto infine, è licenziato e processato.
Non una malattia mentale, non un’arbitraria bizzarria per portar danno agli altri, è alla base del comportamento del postino, ma la compassione: Otto, di giorno in giorno, sentiva crescere in sé un’inquietudine strana, un disagio che lo condizionava in ogni fibra del corpo, una sottile, ma incessante, sofferenza e tutto ciò al cospetto di una serie di particolari che leggeva nello sguardo, nel volto, nelle mani di chi riceveva le varie missive: volti che impallidivano, sguardi sfuggenti e adombrati, mani con repentino tremore. Evidentemente la sua funzione non era asettica, ma si rivestiva della drammaticità, più o meno profonda, presunta o già scontata nella mente dei destinatari, derivante dai contenuti della posta da lui consegnata. La sua sensibilità non poteva reggere oltre: non c’era ragione che giustificasse l’esercizio di un lavoro così strettamente implicato, addirittura complice, nel causare sofferenza al prossimo!
È una storia apparentemente paradossale, scarna e quasi elementare nel tessuto narrativo, ma  non casuale e ricca di una contestualità sentimentale, lirica, intellettuale.  Otto aveva riscoperto l’importanza di riumanizzare il rapporto fra le persone, riguadagnando la riflessione, il distanziamento, il silenzio meditativo. Intuito che una lettera consegnata non fosse una semplice “cosa”, aveva anche compreso che tra l’apparire empirico di quell’oggetto ed il suo essere vi fosse una distanza irriducibile. Ed è qui che le affabulazioni della Bachmann portano luce sulla nostra stessa quotidianità, ove è spesso assente o disatteso il tempo della meditazione, dell’autocritica, dell’umiltà, sovvertito dalla dominanza dell’incultura, di tutte quelle forme di potere che, apparentemente rispondono ai desideri della gente, in realtà si identificano con il più sfrenato consumismo, anche dell’anima, ed inaridiscono i rapporti interpersonali. Una quotidianità che rischia il naufragio della memoria ed il trionfo dell’oblio se non salva le proprie tradizioni, non solo libresche e museali, né quelle ostentate per roboanti e sfarzosi programmi, ma individuabili nei tanti segni di cui è intessuta ciascuna delle nostre città: dalle cerchie urbane e sociali, alla struttura delle piazze, ai piccoli negozi, alle strade ombreggiate da pini e platani. Tutte fonti ove è possibile abbeverarci di bellezza, e di una dimensione umana che è bella anche quando è priva di particolari privilegi.

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