mercoledì 5 ottobre 2016

La suite di Irène Némirovsky

(ap) Un’impresa ambiziosa, Suite française, che  Irène Némirovsky non riuscirà a portare a termine. Scrittrice ebrea francese, arrestata nel luglio del ’42, deportata ad Auschwitz, moriva di tifo nell’agosto di quell’anno. Riuscì a scrivere soltanto i primi due volumi, intitolati La tempesta di giugno e Dolce. Sognava un libro di mille pagine, suddiviso in cinque parti, costruito come una sinfonia, sul modello della Quinta sinfonia di Beethoven. Per raccontare il tracollo della Francia dopo i bombardamenti, la fuga della popolazione parigina verso il sud, lo smarrimento di individui, gruppi familiari, provenienti da diverse classi sociali, e tutti coinvolti in mille peripezie. Un dramma corale, la tragedia che scosse dalle fondamenta tutto il paese.

Irène sentì il richiamo della musica nella scrittura. Il ritmo, la tonalità, i tempi erano essenziali per cogliere la varietà e l’armonia delle vicende, per distinguere le parti dell’opera e ritrovarne alla fine il senso complessivo e misterioso. Lamentava che, se avesse conosciuto meglio la musica, questo le sarebbe stato d’aiuto. Trasferì nelle parole il senso del ritmo immaginando le suddivisioni dell’opera come altrettante partiture musicali, ciascuna con la sua tonalità, esaltata dal nome. Appunto come Tempesta, Dolcezza, i primi titoli scritti; Prigionia, Battaglie e Pace, quelli solo immaginati e mai realizzati.


Percepiva la trasposizione del tempo nelle vicende raccontate: “Il libro deve dare l’impressione di un episodio, come ogni epoca è infine un episodio. Come lo sono tutte le epoche”. Esaltò l’essenzialità della forma per raccogliere gli elementi più eterogenei e dispersi. Sottolineò l’importanza del ritmo per collegare le varie parti, secondo una precisa unità determinata dal tono, dallo stile.
Non a caso, la struttura ritmica avrebbe favorito l’adattamento cinematografico dell’opera nel film dal titolo omonimo (uscito nel 2014) di Saul Dibb, che conservava anche un richiamo musicale nella storia (l’incontro, con una cittadina francese, di un soldato tedesco che nella vita civile era un compositore).
Ne derivò in Irène una scrittura romantica, e armoniosa, come contrappasso al risentimento nutrito contro coloro che avevano distrutto la vita sociale del suo paese d’adozione trasformandola in una giungla dove regnava la paura, raccontata come causa della guerra e della sconfitta e forse della futura, ma ancora lontana, pace.
Nella tragedia che a breve l’avrebbe travolta, somigliavano a “movimenti” di un poema sinfonico gli unici due volumi che riuscì a terminare, ed era scritta a mano, come note di uno spartito, l’ultima lettera ai sui cari: quel giovedì mattina del luglio ’42: "Mio amato, mie piccole adorate, credo che partiamo oggi. Coraggio e speranza. Siete nel mio cuore, miei diletti. Che Dio ci aiuti tutti" .

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